ALITALIA. Un esempio di capitalismo predone

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ALITALIA. Un esempio di capitalismo predone

Oggi i lavoratori del comparto aereo scioperano per difendere il proprio futuro. A indire lo sciopero di 24h diverse sigle, tra cui anche la Cub, con Alitalia costretta a cancellare metà dei suoi voli. Ma in ballo non c’è solo il loro futuro, ma quello di tutti noi. Per questo è indispensabile esprimere loro la massima solidarietà.

La vicenda Alitalia ci consente di spiegare con un esempio lampante che cosa intendono i capitalisti per “nazionalizzazioni” e che cosa invece reclamano i comunisti.

Lo stato ha fondato Alitalia nel 1947 con la finalità di assicurare i collegamenti aerei di lungo raggio. Questa società, come tutte quelle che comportavano grandi capitali e grandi rischi, nella fase in cui il capitalismo italiano era a corto di capitali, fu uno dei pilastri della creazione delle principali infrastrutture italiane del dopoguerra coi soldi pubblici. In realtà – come è ben noto – non furono quelle spese a scavare l’enorme buco del debito pubblico dove ci troviamo inguaiati ora, che invece derivano più dagli interessi accumulati che per il debito stesso.

Dal 1947 al 1973 Alitalia ha realizzato utili, al lordo delle imposte societarie, per 1,2 miliardi di euro (prezzi attualizzati). È solo dal 1974-2007 che ha perso complessivamente 3,3 miliardi (fonte Mediobanca): in media 10 milioni all’anno dal 1947 al 2000 e di 220 milioni l’anno nei successivi. Dopo il “salvataggio” del governo Berlusconi del 2008, che ha privatizzato l’azienda, è riuscita a perdere quasi 400 milioni in media per anno. La metà di questi soldi sono serviti per mandare in cassa integrazione seimila dipendenti e salvare un’altra compagnia aerea, la privata AirOne di Toto. Chiudere Alitalia oggi richiederebbe provvedimenti per i 12 mila dipendenti, per i quali si prevede un costo di quattro miliardi.

Naturalmente la chiusura è la soluzione preferita dai concorrenti che vedrebbero aprirsi la possibilità di accaparrarsi la fetta di 12 milioni di passeggeri dei voli internazionali Alitalia.

Quindi, costi pubblici, profitti privati, prima nel creare, poi nello smantellare Alitalia e poi regalare i resti agli altri.

Una seconda vicenda, connessa con la prima, è quella della concessione di Fiumicino alla società Aeroporti di Roma (AdR) dei Benetton. Per rescindere questa concessione, che scade nel giugno del 2044, anche nel caso di “grave inadempimento”, lo Stato dovrebbe pagare una penale di almeno 10 miliardi di euro, data dai mancati guadagni previsti (valore netto annuale dei ricavi moltiplicato per il numero di anni che restano al termine della concessione). La stessa modalità di concessione si ha per Autostrade per l’Italia (Aspi), sempre dei Benetton, la cui revoca costerebbe 20 miliardi di euro, anche se il crollo del ponte di Genova dovesse essere attribuita a questa società come “grave inadempienza”. Ad Aspi la concessione fu data nel 2007 da un governo di centrosinistra, confermata l’anno successivo addirittura con una legge apposita con un governo di centro-destra. La concessione ad AdR fu approvata dal governo Monti.

Ma torniamo ad Alitalia. Le tariffe pagate per ogni biglietto aereo sono aumentate di circa 12 euro. Dal 2012 al 2017 Aeroporti di Roma ha triplicato i profitti, da 134 milioni a 401. Nello stesso periodo i Benetton hanno investito per i miglioramenti dell’aeroporto 1 miliardo e 100 milioni di euro circa. Sostanzialmente quindi gli investimenti il capitalismo italiano li fa con i soldi pubblici o coi soldi degli utenti, mentre i profitti volano alle stelle, infatti i dividendi agli azionisti sono stati in questi anni pari a 720 milioni.

Ora questo governo, che – prima in campagna elettorale e successivamente dalla tragedia di Genova in poi – ci aveva promesso una decisa sterzata nella direzione dell’interesse pubblico, sta facendo il pesce in barile. Su Genova ancora non si vede la fine della storia e anche su Alitalia il tutto viene rimandato al 15 giugno, dopo le elezioni europee, non solo a scapito della necessaria azione di risanamento, senza la quale si divorano soldi pubblici, ma anche per trasparenza democratica, perché i cittadini che vanno a votare avrebbero diritto di sapere quali sono le politiche. Al momento si ha solo un interesse della compagnia americana Delta, che ovviamente vorrebbe entrare nel lucroso mercato europeo, come partener industriale – cioè quello che dovrebbe saper cosa fare – e Ferrovie dello Stato, che dovrebbe metterci il grosso dei capitali provenienti dal Tesoro (quindi ancora una volta pubblici). Arrivano voci che addirittura ci sarebbe l’interesse proprio di quel Toto che già fu miracolato col salvataggio di AirOne.

Ora, la situazione industriale di Alitalia è tutt’altro che negativa rispetto ai propri concorrenti. Per esempio nel 2018 il costo di produzione è stato di 71 euro per ogni posto che vola per mille chilometri, identico a quello della tedesca Lufthansa. Il problema è che Alitalia non vende i biglietti ai prezzi di Lufthansa a causa di una concorrenza in Italia molto maggiore dei vettori low cost che ormai detengono il 56% di quota di mercato italiano sui voli interni, mentre in Germania la quota dei vettori low cost è appena il 32%, di cui la metà è della low cost della stessa Lufthansa.

In realtà l’enorme penetrazione delle compagnie low cost in Italia è stata favorita da una duplice ritirata dello Stato. La prima, come abbiamo visto, l’abbandono dell’importante mercato interno da parte di Alitalia, dove essa era dominante anche grazie al monopolio di importanti slot, nei principali aeroporti italiani e un’insana concorrenza tra attori che invece dovevano essere promotori dell’interesse pubblico, come Alitalia e Trenitalia, che avrebbero dovuto invece fare sinergia. Alcuni esempi, la guerra sulla ricchissima tratta Milano-Roma, collegamenti ferroviari diretti verso Fiumicino dalle principali città del Centro Italia, ecc. La seconda ritirata – ci verrebbe dire: tradimento – da parte dello stato riguarda alcuni sostegni che le amministrazioni locali hanno dato a certe low cost, come Ryanair. Ora, finché questi sostegni ci sono stati, questa compagnia ne ha approfittato, quando esse sono venute meno, come per esempio a Trapani-Birgi, la Ryanair ha abbandonato l’aeroporto, lasciando “a terra” 500 tra lavoratori diretti dell’aeroporto e dell’indotto.

Capitolo a parte in ogni caso si dovrebbe aprire sulle condizioni in cui i lavoratori e le lavoratrici di Ryanair lavorano e sono pagati, sulle modalità di pagare questi lavoratori e soprattutto di non pagare le tasse da parte della società in Italia, ma nella molto più conveniente Irlanda, alla faccia dell’integrazione europea e del fatto che l’Unione Europea sia la casa comune di tutti.

Ora, queste cose le vede chiunque sia dotato di onestà intellettuale. Diversi articoli sono stati scritti su varie fonti di informazione. Il punto politico essenziale però è: se questa è l’analisi, qual è la soluzione?

In questo si misura la differenza tra un generico democratico che ha a cuore gli interessi “nazionali” e chi invece vede che non ci sono interessi comuni tra il capitalismo e i lavoratori.

Non basta nazionalizzare, occorre anche affidare le aziende ai lavoratori, che sanno meglio di tanti manager quale sia l’interesse non solo dell’azienda stessa, ma anche della collettività degli utenti.

Ma anche questo è insufficiente se poi questa o quella azienda deve navigare all’interno di un mercato dove la concorrenza è sostenuta da sfruttamento, elusione fiscale e ingiusti sostegni. Solo il potere fondato sul controllo dei lavoratori, non solo sulle proprie aziende, ma sull’intera società può garantire non solo la corretta ed efficiente gestione economica di questa o quella azienda, ma anche di tutta la società. In una parola il socialismo.

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