Dalla Turchia alla Tuscia: la Ferrero e l’imperialismo delle nocciole

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Dalla Turchia alla Tuscia: la Ferrero e l’imperialismo delle nocciole

di Matteo Bernunzo

Chiunque di noi ha assaggiato almeno una volta nella vita un prodotto dolciario della Ferrero. La storia dei Ferrero Rocher, degli ovetti Kinder e, sopratutto, della celebre Nutella è la storia di Pietro, Michele e oggi Giovanni Ferrero, attualmente l’uomo più ricco d’Italia con un patrimonio di 22,4 miliardi di euro secondo Forbes; nel 2015 ha ereditato un colosso che fattura più di 10 miliardi di euro l’anno. L’azienda rimane strettamente di proprietà familiare ed è fortemente gelosa dei propri segreti industriali, ma ha trasferito la sede legale in Lussemburgo, paese noto per le politiche fiscali vantaggiose, sottraendo quindi risorse al bilancio italiano; mantiene il legame con il territorio originale di Alba (Piemonte) e, anche attraverso le iniziative della Fondazione Ferrero, ha da sempre cercato di conquistare il consenso dei lavoratori con benefit, alti salari e welfare aziendale (ne abbiamo parlato nel 2015), nonostante oggi la storica fabbrica veda un sempre maggiore uso di contratti stagionali ed esternalizzazioni che crea forti divisioni tra i lavoratori.  

Tuttavia, il vanto padronale (“Mai un’ora di sciopero nelle nostre aziende”) è stato smentito da una lunga storia di attività sindacale che continua ancora oggi. Negli ultimi anni: nel 2016, uno sciopero nello stabilimenti di Alba, durante un braccio di ferro sul rinnovo del contratto nazionale, ha coinvolto l’80% dei lavoratori della Ferrero e di altre aziende del settore, inclusa la Nestlé; infine, a giugno di quest’anno, quando è avvenuto uno sciopero degli operai di uno stabilimento francese della Nutella per chiedere aumenti salariali e bonus e protestare contro il deterioramento delle condizioni di lavoro, richieste alla fine soddisfatte ed oggetto di un volantinaggio del Partito Comunista nello stabilimento di Alba. 

Nonostante questo legame con il territorio originario, oggi la Ferrero è diventata, come vedremo, una vera e propria concentrazione monopolistica ed il terzo gruppo al mondo nel settore dolciario. Nel 2018 il gruppo era costituito da 94 società con 25 stabilimenti produttivi nel mondo, decine di migliaia di lavoratori impiegati, che ogni anno produce 350.000 tonnellate solo di Nutella. 

Naturalmente un gruppo industriale di dimensioni globali ha bisogno di continui investimenti in una sempre più grande rete di approvvigionamento delle materie prime, trasformazione e distribuzione dei prodotti finiti. 

Proprio agli ultimi piani di espansione della Ferrero per quanto riguarda la nocciola in Italia è dedicato un lungo reportage di Internazionale del 21 giugno 2019, una importante inchiesta che però richiede una analisi marxista da cui trarre le conclusioni dei comunisti. 

L’articolo inizia descrivendo la storia del marchio, le recenti importanti acquisizioni e una interessante storia riguardo la Nutella: la divisione americana della Ferrero fu condannata nel 2012 al pagamento di 3.05 milioni di euro di multa a seguito di una class-action per pubblicità ingannevole, al che l’azienda fu costretta a modificare gli spot e le etichette pubblicizzando meglio gli ingredienti dannosi per la salute. 

A questo punto arriva la parte più interessante. La produzione rimane principalmente ad Alba mentre le materie prime arrivano dai paesi del terzo mondo: olio di palma dal sud-est asiatico (Indonesia e Malesia), cacao dall’Africa occidentale e dall’Ecuador, zucchero da barbabietola europeo e da canna sudamericano. 

In particolare, però, l’azienda richiede quantità sempre più grandi di nocciole. Il principale paese produttore è la Turchia, che vanta il 70% della produzione mondiale e una storia secolare. 

La Ferrero acquista oggi un terzo della produzione turca e con recenti investimenti è arrivata ad inserirsi in tutta la filiera, dalla fornitura di nocciole alla commercializzazione, ottenendo un potere di monopolio fortissimo e quindi, a detta del ministro turco dell’agricoltura e delle associazioni di categoria, la possibilità di dettare prezzi, condizioni e politiche agricole e spazzare via i concorrenti. 

Di fatto, le aziende esportatrici sono passate in vent’anni da 55 a 5, con una concentrazione fortissima dei capitali e quindi del potere politico. Settori capitalisti locali che non riescono a reggere la concorrenza vengono scalzati, ma soprattutto a perderci sono gli agricoltori, i più indifesi. La liberalizzazione del settore delle nocciole da parte del governo Erdogan, su pressione della Banca Mondiale, ha fatto sì che poche grandi imprese fossero avvantaggiate a danno dei produttori, che hanno pagato il prezzo di queste politiche antipopolari e favorevoli ai grandi monopoli. 

Questo processo è in linea con lo sviluppo storico del capitalismo, particolarmente nella sua attuale fase imperialista: i grandi monopoli del settore agroalimentare esportano capitali, acquistano terreni e, come nel caso delle nocciole turche, distruggono le coltivazioni e gli stili di vita tradizionali delle comunità locali imponendo un modello di modernizzazione e sviluppo fondato sulle esigenze dei capitalisti stranieri o anche locali, basato sul lavoro di molti braccianti salariati, vari intermediari e produttori sempre meno autonomi. Il reportage rivela, oltre alla presenza non ancora debellata del lavoro minorile, che la Ferrero paga prezzi bassi ai produttori turchi e questo comporta bassi salari per i lavoratori, anche a causa del fatto che le nocciole vengono esportate per essere lavorate altrove. 

Di fatto, le stesse associazioni dei produttori denunciano la politica “neocoloniale” della multinazionale italiana: è importante riconoscere le responsabilità dei capitalisti italiani nell’imperialismo, nello sfruttamento dei lavoratori e dei popoli, per non cedere alla falsa retorica dell’Italia “colonia”, utile agli interessi dei nostri padroni e grandi monopoli; dei dati reali che ci permettono di smascherare gli interessi di settori borghesi dietro al “sovranismo”. 

In questi ultimi anni la Ferrero sta puntando a espandere i propri interessi in altre aree del mondo, dall’America Latina ai Balcani, fino al nostro Paese: il progetto Nocciola Italia prevede ulteriori 20.000 ettari di coltivazioni. 

In particolare, l’azienda sembra interessata ad aumentare la produzione nella provincia di Viterbo, che con 22.000 ettari circa è la principale area di produzione nazionale, attirata da una resa molto alta (due o tre volte più che in Turchia), con profitti resi possibili anche dalla maggiore meccanizzazione del lavoro. 

La Ferrero parla di altri 10.000 ettari di noccioleti, anche in aree dove non erano normalmente presenti. 

Una denuncia di questi piani è venuta da Famiano Crucianelli, presidente del biodistretto della via Amerina e delle Forre (un’area comprendente tredici comuni della bassa Tuscia e dei monti Cimini). 

Diversi sono infatti i rischi di una monocoltura delle nocciole nell’area. Il primo di danni ambientali: il prof. Giuseppe Nascetti dell’Università della Tuscia denuncia da molti anni che l’uso di fertilizzanti, pesticidi e altri prodotti chimici tipici della monocoltura intensiva  potrebbe danneggiare ulteriormente il lago di Vico, definito dall’ecologo “ancora in stato comatoso” e in generale la biodiversità del territorio; secondo il suo parere, un’agricoltura rispettosa dell’ecosistema sarebbe meno conveniente, più costosa e meno produttiva, motivo per cui non verrebbe adottata nelle nuove coltivazioni, che potrebbero mettere ulteriormente a rischio anche la salute del lago di Bolsena. Perfino il vescovo Lino Fumagalli si è espresso contro lo sfruttamento intensivo. 

Non parliamo di danni ipotetici: a causa dello sviluppo della cosiddetta alga rossa e la presenza di batteri, oltre che arsenico, nickel e altre sostanze, l’acqua del lago di Vico, utilizzata per la distribuzione nei comuni di Caprarola e Ronciglione, è stata dichiarata nel 2017 non potabile. 

Inoltre, uno dei rischi dell’agricoltura intensiva è la degradazione del suolo, a causa dell’alterazione degli equilibri naturali dei terreni. Infine, la monocoltura aumenta il rischio di diffusione di eventuali epidemie, che a partire da poche piante potrebbe mettere in ginocchio molti produttori (come si è potuto constatare con gli ulivi pugliesi e la Xylella). 

Naturalmente ci sono forti divergenze tra chi mette in evidenza questi rischi legati alla monocoltura e chi, come il sindaco di Caprarola Eugenio Stelliferi, ribatte aspramente. Secondo la sua interpretazione dei dati, contestata dal prof. Nascetti di cui abbiamo scritto sopra, si tratterebbe esclusivamente di “allarmismo” e ha addirittura minacciato vie legali contro i “diffamatori”. In particolare, il primo cittadino ha negato che l’espansione dei noccioleti porterà a una monocoltura, citando la percentuale di coltivazioni di nocciola nel Lazio, numericamente bassa ma concentrata in poche aree su cui avrà un impatto sempre maggiore. 

Il secondo e non meno importante problema è quello socio-economico in un territorio come quello della Tuscia che vede una primaria importanza del settore agroalimentare. In particolare, è mancata una pianificazione economica che prevedesse la valorizzazione delle Nocciole della Tuscia, poco conosciute nonostante la tonda gentile romana sia una tra le migliori varietà di nocciole a livello nazionale, oppure lo sviluppo di industrie di trasformazione delle nocciole paragonabili agli impianti della Ferrero di Alba. Il rischio è quindi quello dell’affermazione di un modello “neo-feudale” con l’azienda nei prossimi anni. Attualmente gli agricoltori meno lungimiranti vedono con favore il ruolo sempre maggiore della Ferrero, che al momento offre buoni prezzi per il loro prodotto. Ma quanto dipendono, questi prezzi, dalla produttività delle coltivazioni, dalla competenza degli agricoltori e quanto dagli incentivi che la Regione e le istituzioni europee hanno destinato al comparto delle nocciole? 

Una azienda con un tale potere di monopolio potrebbe benissimo prendere fondi regionali ed europei per i 4-5 anni necessari affinché i noccioleti diventino produttivi e poi imporre nuove e peggiori condizioni ai produttori locali, puntare all’acquisto e alla gestione diretta dei terreni o semplicemente spostare i propri interessi altrove nel momento in cui questi terreni dovessero diminuire la propria produttività a causa di una coltivazione intensiva e non rispettosa dell’equilibrio naturale. 

Queste dinamiche verrebbero favorite dalla mancata valorizzazione delle nocciole della Tuscia e trattate quindi come una “commodity”, una merce indifferenziata, sostituibile con altri prodotti eventualmente più convenienti, provenienti da altre aree o altri Paesi. 

Dunque, c’è il rischio concreto che la Ferrero instauri con il territorio viterbese un rapporto simile a quello con i produttori turchi: un forte monopolio sulla produzione delle nocciole, alla quale potranno imporre prezzi e regole e poco o nessun investimento industriale nella trasformazione che aggiungerebbe valore ai prodotti e quindi potrebbe potenzialmente generare più ricchezza e lavoro (pur se alle condizioni che oggi conosciamo in termini di diritti e salari…).  

Ci sono anche dei precedenti per quanto riguarda promesse di investimenti industriali della Ferrero nella provincia con l’acquisizione della Stelliferi (nessuna parentela prossima col sindaco di Caprarola), azienda attiva nella semilavorazione, nientemeno che per la produzione di Nutella, poi rimasti su carta. 

Com’è prevedibile, la questione dell’espansione dei noccioleti nel viterbese è complessa e chiama a giudicare un futuro modello di sviluppo di un territorio; 

Sembra che, in parte, questo intenso dibattito abbia portato all’attenzione delle istituzioni la questione: il 26 giugno la regione Lazio ha approvato una legge proposta dal Biodistretto della via Amerina e delle Forre, che metterebbe al centro “la valorizzazione e lo sviluppo sostenibile del territorio”, mentre allo stesso tempo sostiene il progetto di espansione della Ferrero. 

Noi comunisti siamo coscienti che questo dibattito non si può limitare a mettere “ambientalisti” e produttori gli uni contro gli altri nell’eterno scontro tra produttività e sostenibilità, resa economica e rispetto del territorio, né confidare nelle promesse delle istituzioni guidate dal Partito Democratico. Allo stesso modo, non basta proporre la necessità di una via intermedia, la promozione delle coltivazioni biologiche (che pure in parte sono già presenti) o la valorizzazione dei prodotti tipici senza mettere in discussione il sistema economico e politico alla base di tutti questi modelli di sviluppo. 

Non possiamo non denunciare come i grandi monopoli come la Ferrero, oltre a un forte potere economico e commerciale, possiedano un enorme potere politico; possono orientare e modificare la legislazione e regolamentazione commerciale nazionali ed europee, in quest’ultimo caso attraverso l’attività delle lobby, non esattamente trasparente, le quali rappresentano maggiormente grandi imprese. Per dare un’idea, nella discussione sull’ultima riforma della politica agricola europea, ci sono stati 8000 emendamenti, spesso proposti o direttamente scritti dai lobbisti.  

L’UE da anni parla di tutela della concorrenza e delle piccole-medie imprese, anche nel settore agro-alimentare, grazie alle sue autorità “indipendenti”; eppure non solo essa permette e incoraggia la libertà dei capitali nel mercato unico, che avvantaggia le imprese più forti, ma i suoi esponenti istituzionali dichiarano ormai apertamente che “servono giganti” per la “sovranità economica europea”, ovvero la competizione con i monopoli dei paesi emergenti e BRICS, Cina, Russia e India in primis, nei vari settori, dall’industria automobilistica a, perché no, quella agroalimentare.  

È nota, ad esempio, l’oscillazione della Turchia e della sua borghesia tra le sfere di egemonia euro-atlantica e russa (con un comportamento contradditorio nel conflitto siriano) e non è impensabile che l’espansione e diversificazione dell’approvvigionamento di materie prime da parte della Ferrero (da due anni anche dal Cile, per esempio) nasca anche da queste considerazioni internazionali. 

A conclusione di questa analisi, è importante ribadire con chiarezza che la nocciola è una importante risorsa di questo territorio e può esserlo anche in futuro, né si vuole criticare lo sviluppo economico in toto e proporre romantici “ritorni alla terra” o teorie sulla “decrescita felice” incompatibili con le esigenze della società contemporanea e delle classi popolari. 

Purtroppo, in questo momento di scarsa consapevolezza politica, accade che gli agricoltori si facciano abbagliare da vantaggi immediati, magari anche reali, ignorando i rischi ambientali, ma anche economici, che portano con sé per un bellissimo territorio come quello viterbese, per gli stessi piccoli coltivatori e, ovviamente, per i lavoratori agricoli, tutto a vantaggio dei profitti di grandi multinazionali come la Ferrero, sostenuti anche con soldi pubblici (in primis dalla regione Lazio, governata dal neo-segretario del PD Zingaretti). 

La Nutella e gli altri prodotti dolciari della Ferrero sono apprezzati non solo in Italia ma in gran parte del mondo; è indubbia l’importanza di questa produzione per l’economia italiana, ma essa non può avvenire a scapito di un territorio intero. Del resto, il sistema capitalistico e il potere dei grandi monopoli sono incompatibili con qualsiasi autonomia dei produttori, con i diritti dei lavoratori agricoli, con uno sviluppo rispettoso dei popoli del mondo, sostenibile e partecipato dalle comunità locali e che sappia superare le forti contraddizioni della nostra società, quelle tra ambiente e produzione, tra salute e lavoro, tra gli interessi di poche oligarchie e quelli delle classi subalterne, della maggioranza della società. 

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