La nascita della CECA: marchio d’origine dell’Europa contro i lavoratori

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La nascita della CECA: marchio d’origine dell’Europa contro i lavoratori

*di Tiziano Censi

Il dibattito sull’UE è ormai da anni al centro dell’agenda politica italiana e la Manovra alla base della legge di bilancio ha riaperto le polemiche, spesso pretestuose, tra i partiti di governo e di opposizione che, fuori dalla rappresentazione che essi danno di questo scontro, hanno sostanzialmente mantenuto, in questi anni, una linea di completa continuità tra le loro politiche e nel rapporto con gli organismi sovranazionali. Il rapporto deficit/PIL al 2,4% non fa eccezione come abbiamo già spiegato qui.

Il dibattito che si genera intorno alla questione Europa, però, specialmente a sinistra, rimane ammantato da un velo ideologico che riscrive il processo stesso di costruzione dell’Unione Europea per piegarlo ad una visione “comunitaria” dei popoli europei che nulla ha a che spartire con la costruzione effettiva dell’impianto istituzionale europeo.

Se è pur vero che molti partiti della sinistra extraparlamentare, in emorragia di consensi, hanno fatto dietrofront rispetto ad un marcato europeismo nella necessità di rincorrere un sentimento di sfiducia diffuso nei confronti dell’UE, è anche vero che le loro formulazioni rimangono contraddittorie, spesso volutamente ambigue, prive di quell’analisi dei processi concreti che a noi sta a cuore svelare.

Siamo convinti che per portare avanti un dibattito costruttivo sui compiti dei comunisti nella lotta contro l’UE serva fare chiarezza sulle basi da cui si parte, eliminando questo velo ideologico e riscoprendo le necessità di classe, le motivazioni e gli interessi che si celano dietro all’UE.

Già quattro anni fa, con tre articoli, avevamo mostrato la contrarietà del PCI, unica forza politica a votare contro, all’entrata dell’Italia nel MEC (Mercato Unico Europeo), riportando direttamente le parole che i parlamentari comunisti avevano pronunciato in aula e l’analisi, incredibilmente attuale, che il PCI faceva delle conseguenze che il trattato avrebbe comportato all’economia italiana e alla condizione dei lavoratori (potete ritrovare l’articolo a questo link). In questo articolo faremo un ulteriore passo indietro partendo dagli albori del progetto europeo.

La genesi del dibattito europeo

Il dibattito sulla possibilità di unire i paesi europei prese avvio a partire dai primi anni del secondo dopo guerra ma fu tutt’altro che popolare. L’opinione pubblica rimase a lungo estranea a questi processi, poco informata e per nulla considerata. Le classi popolari subirono gli effetti del nuovo impianto sovranazionale ma non ebbero mai nessuna voce in capitolo. Furono infatti circoli intellettuali e politici, con l’attenzione della borghesia “illuminata” e più lungimirante a dar vita alla discussione guidata da personalità quali Winston Churchill, Alcide De Gasperi e Adriano Olivetti. Nel giro di pochi anni questi circoli iniziarono a darsi una strutturazione e nacquero così alcuni gruppi federalisti transnazionali. Anche questo dibattito tra élite, però, sarebbe rimasto sterile ed inconcludente se la prospettiva europea non avesse cominciato a far gola agli industriali e di rimando ai governi nazionali.

Sarà in particolare la Francia a dare l’impulso iniziale, secondo quello che verrà definito il metodo “funzionalista”, proponendo la costituzione del Consiglio d’Europa (1949) e della CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, 1951) che diedero vita alle prime istituzioni europee, embrioni del mercato comune e dell’UE per come li conosciamo oggi.

Dalla fine della guerra per la Francia rimaneva scottante il tema sulle sorti della Germania con la quale si contendeva importanti giacimenti minerari nel territorio della Sarre. In Germania, inoltre, si estendeva il bacino della Ruhr in cui ogni anno venivano prodotte 114,5 milioni di tonnellate di carbon fossile corrispondenti a circa la metà della produzione europea. Uno sviluppo tedesco incontrollato avrebbe minacciato i mercati francesi. Le proposte di smembramento della Germania Ovest, però, erano naufragate per l’opposizione degli Stati Uniti e dell’Inghilterra interessati a creare un argine forte sulla linea di confine con il blocco sovietico. L’unica via praticabile, dunque, per cercare di contenere lo sviluppo tedesco sembrava potesse essere quella di imbrigliarlo all’interno di un meccanismo di controllo comune. Nacque così, con la benedizione degli Stati Uniti d’America, la CECA che univa i mercati carbosiderurgici di Francia, Germania, Italia, Belgio, Lussemburgo e Olanda prevedendo regolamentazioni comuni, l’abolizione dei dazi interni e la standardizzazione della tassazione sui prodotti importati, un controllo sui prezzi e meccanismi per la liberalizzazione della manodopera del settore.

L’accordo era visto con favore dalle classi dominanti europee e americane per motivi economici e politici. Per la Germania questo rappresentava a tutti gli effetti un processo di pacificazione e di elevamento della nazione sconfitta al pari degli altri paesi. Permetteva, inoltre, di trovare potenziali mercati alla propria potenza carbosiderurgica. Per l’Italia dal punto di vista politico le motivazioni erano simili con la differenza però che il settore produttivo italiano era molto indietro rispetto agli altri Paesi e questo comporterà effetti catastrofici sul livello occupazionale. Per tutti i Paesi, poi, un legame più stretto rappresentava un importante tassello nello scontro contro il blocco sovietico e con i partiti comunisti europei. Gli USA da tempo spingevano in questa direzione (nel 1949 era stata costituita la NATO) e salutarono con grande favore la nascita della CECA. Parole entusiaste arrivarono anche dagli ambienti vaticani, per Papa Pio XII il processo europeo si accordava con la vocazione universalistica della chiesa cattolica ed era fondamentale per frenare l’espansione del comunismo.

Ad opporsi alla firma dei trattati nei vari paesi furono solamente i partiti comunisti, in particolare di Francia ed Italia, preoccupati per gli effetti che questi avrebbero avuto sulle condizioni di vita dei lavoratori e poiché leggevano il carattere anticomunista ed antiprogressista di tutto il processo. Il contesto della guerra fredda è, infatti, fondamentale per comprendere gli ulteriori sviluppi. A partire dalla 1950, con lo scoppio della guerra di Corea e l’inasprirsi della contrapposizione tra blocchi, in Europa si inizia a parlare del Piano Pleven, dal nome del primo ministro francese, che avrebbe dovuto costituire una Comunità Europea di Difesa (CED), passo ulteriore dell’unificazione europea. La proposta francese anche in questo caso era finalizzata ad evitare un riarmo tedesco incontrollato e mirava ad una nuova unificazione settoriale: quella delle forze armate e dei sistemi di difesa. Le forze armate dei vari paesi sarebbero state inglobate all’interno delle “Forze Europee di Difesa” a loro volta subordinate alla NATO, rafforzando non solo il legame tra i Paesi europei ma costituendo a tutti gli effetti una saldatura definitiva del vecchio continente al campo imperialista statunitense.

Il carattere antisovietico di questa operazione era evidente al punto che il naufragio della CED corrispose proprio da un allentamento della tensione internazionale, con la fine della guerra di Corea nel luglio del 1953 e con la morte di Stalin, il 5 marzo dello stesso anno, che fece prevalere gli interessi nazionali delle borghesie europee sulla paura dell’estendersi del comunismo. Altiero Spinelli, oggi osannato da una certa sinistra, arrivò a sostenere che “nell’interesse della costruzione dell’unità europea sarebbe stato bene che Stalin fosse vissuto ancora un anno.”

Tutto ciò avvenne senza alcun coinvolgimento delle classi popolari che rimasero spettatrici impotenti del riassestamento degli equilibri tra le varie borghesie europee che, uscite dalla guerra, si dotavano degli strumenti sovranazionali per l’esercizio del proprio dominio e per la difesa dei propri interessi. Nessuna spinta ideale mosse gli Stati ma solamente calcoli economici e politici in cui ciascuna borghesia nazionale cercava di far valere i propri interessi pur nella necessità comune a livello europeo di unirsi per non rimanere schiacciati economicamente e politicamente dal contesto della guerra fredda.

Un processo tutt’altro che democratico: l’esclusione dei comunisti.

La nascita del Consiglio d’Europa e della CECA fu accompagnata dalla costituzione di organismi di gestione e di controllo completamente slegati dal controllo popolare. L’organismo più importante della CECA era l’Alta Autorità composta da nove membri svincolati da qualsiasi legame di dipendenza dagli Stati di provenienza, con il compito di gestire il nuovo impianto economico, garantire prestiti, orientare gli investimenti, occuparsi della sicurezza sul lavoro, indirizzare gli Stati verso la liberalizzazione degli scambi e verso la libera circolazione della manodopera. Al suo interno gli interessi degli imprenditori (in particolare di quelli francesi) erano ben rappresentati dalla presenza di Léon Daum, industriale siderurgico. L’Alta Autorità, come era facile immaginarsi, negli anni della sua attività ebbe mano molto leggera nel contrastare l’azione dei cartelli industriali, come la GEORG che controllava tutta la produzione del bacino della Ruhr; l’Oberrheininsche Kohlenunion, monopolista delle vendite in Germania del sud; il Comptoir belge des charbons e l’Association technique de l’importation, che controllavano il settore carbonifero nei rispettivi paesi. Questi cartelli industriali furono i veri beneficiari del mercato comune appena creato. Con ancor meno risolutezza, poi, l’Alta Autorità agì in difesa dei posti di lavoro e delle condizioni lavorative ma di questo ne parleremo più avanti.

Con carattere consultivo e di controllo ma con poteri estremamente limitati era previsto l’insediamento di un’Assemblea Comune che rappresenta il primo passo verso la costituzione del Parlamento Europeo. I membri dell’Assemblea Comune non erano eletti dai cittadini ma scelti tra i parlamentari di ogni paese, ad eccezione dei comunisti. Per una conventio ad excludendum praticata in tutti i paesi dell’Europa a sei i comunisti erano esclusi dall’essere rappresentati in qualsiasi assise europea. Questo avveniva tanto nel Consiglio d’Europa quanto in tutte le successive assemblee fino al 1969, con il risultato che la componente democristiana risultò sempre preponderante, contrastata solo da una timidissima opposizione socialista, nei venti anni iniziali della costruzione europea.

L’arbitraria esclusione dei comunisti dalle assemblee europee contraddiceva i dettami contenuti negli articoli dei trattati stessi della costruzione europea ma in questi casi gli impianti normativi passano in secondo piano. Il carattere anticomunista di tutto il progetto europeo non poteva rischiare di essere messo in crisi dalla presenza di una vera opposizione all’interno delle assemblee europee. Nessun velo copriva le aspirazioni della borghesia in quegli anni: il mercato comune doveva favorire la crescita produttiva e gli industriali, i comunisti si sarebbero opposti, il carattere di argine al blocco socialista assunto dall’Europa a sei ne sanciva la definitiva esclusione.

L’attenzione nell’estromissione dei comunisti fu enorme anche quando, nella fase di trattativa della CED (che poi abbiamo visto non andrà in porto), i delegati europei si trovarono ad affrontare il problema di un’elezione diretta da parte dei cittadini dei parlamentari europei. Pierre-Henri Teigen espresse il pensiero di tutti: “Se per esempio su 40 seggi attribuiti alla Francia, 8 fossero detenuti dai comunisti, la delegazione francese sarebbe ridotta a 32.” Bisognava dunque trovare un modo per “eliminare i comunisti” attraverso il metodo di scrutinio. L’assemblea convenne dunque per un sistema elettorale maggioritaria che avvantaggiava fortemente le coalizioni, molto simile alla “legge truffa” in Italia che avrebbe garantito così una forte sottorappresentazione dei comunisti.

D’altra parte, i comunisti, pur fuori dalle istituzioni europee portavano avanti la loro opposizione a contatto con gli operai che subivano sulla propria pelle gli effetti dei nuovi trattati.

Un’Europa contro i lavoratori

Per capire la portata generale che ebbe la nascita delle nuove istituzioni sovranazionali basta vedere che al momento della ratifica dei trattati istitutivi della CECA erano impiegati nel settore carbosiderurgico dei paesi coinvolti 1.850.000 lavoratori. La nuova comunità prevedeva la liberalizzazione nella circolazione della manodopera nei paesi aderenti con il risultato di mettere questi lavoratori in concorrenza tra loro con ripercussioni sui ritmi di lavoro, sulle condizioni di sicurezza e sui salari.

Ad essere più penalizzati furono i lavoratori dei paesi con i comparti industriali più arretrati. Il fenomeno del livellamento a ribasso dei salari, più manifesto al giorno d’oggi, fu meno evidente, ma ciò si dovette al fatto che la crescita del mercato comune andò di pari passo con la ricostruzione del dopoguerra, e al boom economico degli anni ’50 finanziato con gli ingenti investimenti americani: dal Piano Marshall ai prestiti concessi direttamente alle istituzioni europee. Gli effetti della libera circolazione della manodopera si fecero sentire, in particolare, nella crescita dei fenomeni migratori verso i paesi che potevano garantire una maggiore occupazione e la speranza, spesso disillusa, di salari più alti. L’Italia fu fortemente interessata da fenomeni emigratori, diretti specialmente verso le miniere belghe dove le condizioni di lavoro erano terribili e la sicurezza inesistente.

L’emigrazione italiana fu sostenuta fortemente dal governo italiano che sperava in questo modo di ridurre la disoccupazione. Grazie ad accordi bilaterali con il Belgio, inoltre, l’Italia riceveva determinati quantitativi di carbone ogni scaglione di mille operai inviati a lavorare nelle miniere. Questo fenomeno fu così favorito che solo in Belgio nel 1951 erano presenti 50.000 minatori italiani, la maggior parte dei quali versava in condizioni abitative del tutto precarie, molti lavoratori, addirittura, alloggiavano nelle baracche costruite dai nazisti per i prigionieri sovietici adibiti al lavoro nelle miniere durante la seconda guerra mondiale.

Le condizioni di lavoro erano, se possibile, ancora peggiori: i ritmi erano tenuti elevati dal largo utilizzo del pagamento a cottimo e gli incidenti all’ordine del giorno. Solo nel 1952 ci furono 122.000 incidenti. Gli italiani che persero la vita nelle miniere belghe furono più di 500 ma nell’Assemblea Comune si cercava di minimizzare poiché intervenire sulla sicurezza avrebbe prodotto un aumento dei prezzi e la messa in discussione del lavoro a cottimo in Belgio avrebbe potuto produrre effetti anche negli altri Paesi. Secondo il parlamentare della CDU George Pelster era conveniente che questi dati non divenissero pubblici per evitare che potessero esser impiegati dai comunisti per un “uso sovversivo”. L’Alta Autorità si decise ad agire con decisione solo dopo l’8 agosto 1956 quando nella miniera di Bois du Cazier, a Marcinelle, in Belgio un incendio uccise 262 operai, 136 dei quali italiani.

Anche la concorrenza tra le imprese ebbe effetti deleteri sulla condizione dei lavoratori. Molte delle aziende meno competitive applicarono piani di modernizzazione che causarono forti licenziamenti. Questo avvenne ampiamente in Italia negli stabilimenti dell’Ilva di Savona, ad esempio, l’occupazione scese tra il 1948 e il 1953 da 4.300 a 2.200 unità e nelle acciaierie di Terni da 7.900 a 5.300. Il piano di licenziamenti produsse una forte risposta operaia, a Terni si organizzarono una serie di scioperi che in alcuni casi sfociarono in violenti scontri con le forze dell’ordine schierate per reprimere la protesta operaia. Stessa cosa successe a Piombino nello stabilimento “La Magona d’Italia” che era stato occupato dagli operai. La fabbrica fu sgomberata con la forza dalla polizia e tutto il personale licenziato in blocco. L’azienda riassunse in seguito solamente gli operai che non avevano partecipato all’occupazione.

Questo è il clima in cui si svilupparono le premesse e si costruirono le fondamenta dell’Unione Europea. La retorica dell’Europa dei Popoli e dei grandi ideali da riscoprire decade di fronte alla realtà storica. I trattati europei nacquero con il preciso scopo di favorire gli interessi degli industriali, restringere i diritti dei lavoratori e porre un freno alla spinta progressiva del blocco socialista. Essi furono applicati attraverso la sistematica esclusione dell’opposizione comunista e con la forza della repressione poliziesca contro gli operai.

Nessun’altra Europa è possibile all’interno della gabbia di queste istituzioni nate per servire interessi tutt’altro che popolari.

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