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La parola ai lavoratori dei call center

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Ho iniziato a lavorare nei call center agli inizi degli anni Duemila, per guadagnare qualcosa ed essere un minimo indipendente dalla mia famiglia, che già mi pagava gli studi. All’epoca, molte persone erano nella mia stessa condizione, in quanto questo era considerato, dai più, un lavoretto temporaneo.

Non avevamo idea di come sarebbe precipitata la situazione lavorativa: il disfacimento era già in atto da tempo, ma qualche garanzia, come l’art. 18, resisteva.

Oggi, la maggior parte dei lavoratori dei call center è composta da persone laureate – in qualsiasi ambito – o che hanno perso il proprio posto di lavoro, a seguito di chiusure, riorganizzazioni aziendali, esuberi… Sono istruiti, molto spesso hanno solide esperienze lavorative alle spalle, ma fortemente disillusi, ricattabili ed indeboliti, assolutamente poco consci del proprio valore e della propria forza di classe.

A tutto questo, contribuisce un gioco di scatole cinesi che rende gli equilibri ancora più instabili, se possibile: si tratta quasi sempre di “outsourcing”, cui cioè un’azienda che ha bisogno di servizi di assistenza clienti si rivolge, per evitare di assumere dipendenti, che – soprattutto nell’ultima decina d’anni – fanno sempre più ricorso alle agenzie di somministrazione di lavoro, spesso con contratti a tempo determinato, rinnovabili di 1,3,6 mesi.

A qualsiasi occhio attento, non sfuggirà quanto tutto questo allontani la responsabilità dell’azienda per cui effettivamente lavorano (e cioè il committente), da qualsiasi responsabilità verso i lavoratori. Lavoratori che, a loro volta, spesso si trovano in contrasto tra loro: i dipendenti dell’azienda contro i somministrati, i quali, a loro volta, invidiano i dipendenti per le loro condizioni contrattuali (orari migliori, maggiori tutele, rappresentanza sindacale direttamente in azienda…), in una guerra tra poveri cui è frequente assistere in qualsiasi realtà lavorativa di questo tipo.

Ho avuto modo di constatare tutto in diversi posti, per poi fermarmi, “grazie” al Jobs Act, con un contratto a tempo indeterminato, stipulato con agenzia.

Durante gli anni, ho assistito al lento, inesorabile ed inarrestabile peggioramento delle condizioni lavorative: dall’isolamento totale dal mondo esterno – ottenuto mediante protocolli di sicurezza ai limiti del paranoico, ufficialmente per conformarsi al GDPR, in realtà per non permettere all’operatore di distrarsi nemmeno per un minuto – al controllo da remoto di qualsiasi attività venga svolta, in ogni istante; dall’aumento, a poco a poco, delle mansioni, a quello degli orari di apertura, soprattutto durante i giorni festivi, che peraltro non vengono retribuiti come dovrebbero.

Iniziative spontanee dell’azienda, non osteggiate dai sindacati dei dipendenti, o frutto di veri e propri accordi firmati dai rappresentanti; i sindacati dei somministrati, invece, hanno come interlocutori le agenzie, che a loro volta si confrontano con l’azienda utilizzatrice, in un gioco delle parti che, solitamente, serve solo a fare trascorrere del tempo.

I lavoratori, soprattutto i somministrati, sono costantemente ricattati: “non ti rinnoviamo il contratto!”; “Ti chiudiamo la missione!”, ed hanno interiorizzato talmente il concetto, che appena qualcuno prova a lamentarsi, sanno solo rispondere: “se non ti sta bene, trovati un altro lavoro!”

L’emergenza sanitaria Covid-19 ha trovato, ad accoglierla, questa situazione. L’azienda per la quale lavoro, fortunatamente, ha fatto abbastanza in fretta a spostare la forza lavoro in “smart working”: altri colleghi non sono stati così fortunati, seppure lavorano per un settore che non necessita di presenza fisica, e – da un lato perché il governo ha reputato che le “attività di call center” dovessero restare aperte in quanto “servizi di prima necessità” (indiscriminatamente, qualunque fosse la “materia” trattata!’), dall’altro perché i controlli non ci sono stati o, in alcuni casi di cui sono personalmente a conoscenza, seppure sollecitati da pochi lavoratori esasperati, non si sono mai presentati, o hanno sottovalutato la gravità del mancato rispetto dei protocolli di sicurezza – in alcuni call center si sono verificati dei decessi, che sono stati minimizzati dai media, e quasi sottaciuti.

L’introduzione di quello che è denominato smart working, ma tale non è (nessuna autonomia, orari imposti dall’azienda, costante controllo sulla produttività), è stata accolta con favore dai lavoratori: ha permesso loro di non rischiare la salute, di risparmiare tempo e denaro, non dovendosi recare in sede, di avvertire un po’ meno il giogo del controllo asfissiante.

L’azienda, del resto, ha fatto presto a riconoscere il proprio tornaconto: maggior produttività degli operatori, enorme risparmio in termini energetici e di affitto dei locali, isolamento dei lavoratori gli uno dagli altri… Ha dichiarato dunque di voler provare a proseguire in questo modo, al termine dell’emergenza, ponendo la questione in modo da fare sembrare che stia facendo un enorme favore ai lavoratori, e solo ad essi: tuttavia, è chiaro che non voglia perdere nulla, e già si sta mettendo in moto per capire come estendere i propri sistemi di controllo nelle abitazioni.

Si tratterà di trasformare i contratti in telelavoro? È difficile: pochissimi dispongono di un locale isolato dal resto delle attività domestiche. E, in quel caso, gli oneri di tutto quanto sia necessario a lavorare, comprese le spese di connessione e l’adeguamento degli impianti, graverebbero sul datore di lavoro.

Di una sorta di smart working rivisitato e corretto, declinato alle sue esigenze? Più probabile.

Quel che è certo, è che l’interesse è quello di spendere meno e guadagnare più di prima. Sarebbe auspicabile che questo risultasse in una riduzione di orario lavorativo a parità di salario, o quanto meno in un aumento di quest’ultimo. Ma, come è ovvio, simili possibilità non sono nemmeno state prese in considerazione.

 

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