La retorica della solidarietà nazionale sarà sempre nemica dei lavoratori.

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La retorica della solidarietà nazionale sarà sempre nemica dei lavoratori.

*di Alessandro Mustillo  

Sul quotidiano “La Verità” è apparso un articolo a firma di Adriano Scianca[1] dal titolo “Di fronte alla prima guerra mondiale la sinistra smise di capire il popolo”. La tesi sostenuta è che il divorzio tra paese e élite culturali di sinistra non è un fatto di oggi, ma risalente al tempo della prima guerra mondiale. Si legge nell’articolo «è infatti dall’incomprensione di ciò che accadeva nella società italiana prima, ma soprattutto durante e dopo il conflitto mondiale che nasce l’incapacità della sinistra di comprendere l’Italia profonda». L’articolo ricorda il travaglio della socialdemocrazia europea, dapprima contraria alla guerra poi divisa a livello internazionale con la scelta della SPD, e successivamente della maggior parte dei partiti socialisti, di schierarsi con il proprio governo sostenendo la guerra, imputando al contrario ai socialisti italiani di essere «il solo partito socialista europeo che non avesse solidarizzato con la patria in quella guerra» definendo la strategia dei socialisti italiano come un «autoghettizzarsi fuori dal tempo».

La conclusione storica dell’articolo, che la sconfitta dei socialisti italiani di fronte al fascismo fu frutto della mancata condivisione patriottica della guerra, è storicamente infondata. A smentirla è l’evidenza stessa degli sviluppi storici successivi. Il movimento socialista risultò sconfitto in tutti i paesi dove aveva assunto posizioni interventiste, Germania in testa, dove la SPD, terminata la propria funzione antirivoluzionaria nel periodo di Weimar, fu spazzata via dal nazismo. Nel complesso fu proprio il tradimento della causa internazionalista, con i singoli partiti nazionali che presero le parti dei propri Stati nel conflitto a determinare la sconfitta della socialdemocrazia a livello continentale. Controprova è il fatto, che invece risultò vittoriosa quella parte del movimento socialista che rifiutò la guerra e seppe delineare una coerente strategia rivoluzionaria, come fece Lenin in Russia.

Il perché della sconfitta dei socialisti in Italia va ricercato, al contrario nel fatto che il PSI non seppe e volle andare “fino in fondo”, a contraddizioni che minarono la linea politica e strategica del PSI. Se infatti i socialisti italiani ebbero il merito storico di non rincorrere la maggioranza dei socialdemocratici nel loro appoggio ai propri governi, il PSI di allora era un partito profondamente diviso al proprio interno. Da una parte l’ala riformista, capeggiata da Turati e dalla dirigenza della CGL e maggioritaria nel GPS[2]. Dall’altra l’ala massimalista, allora largamente maggioritaria nella base del partito, capeggiata da Serrati, nella quale a sua volta andava a mano a mano prendendo forma, per lo più nelle fila della giovanile socialista, l’area rivoluzionaria che sarà capofila della futura scissione di Livorno.

La neutralità professata dal partito era un compromesso più di facciata che reale. Dietro la formula del «né aderire né sabotare» si lasciava spazio a visioni e strategie profondamente diverse. Per i massimalisti, come disse Serrati: «I proletari guardano alla patria di domani che sarà la patria socialista, la patria del proletariato redento. Essi non sono nemici di una patria…sono nemici di tutte le patrie borghesi. Rifiutano di dimenticare la loro classe per difendere una patria che non è la loro. Rifiutano di farsi assassini dei loro compagni di lavoro – qualunque lingua essi parlino – per affermare la propria solidarietà con i padroni del capitale». Questa posizione – politicamente corretta –  era tuttavia sempre adombrata dalla linea dei riformisti i quali da una parte ammettevano tesi difensiviste in relazione al conflitto, dall’altra si opponevano a qualsiasi seria forma di iniziativa politica del partito contro la guerra.

La posizione dei riformisti fu chiara fin dall’inizio quando si opposero strenuamente all’ipotesi di uno sciopero generale che contrastasse l’entrata in guerra dell’Italia. «Guai – affermò Turati – se la guerra cominciasse con una rivolta del paese […] Se l’Italia viene aggredita, bisognerà pur che si difenda…» [3] o ancora «difendiamo la nostra neutralità fin quando non fosse necessario romperla per la difesa dell’integrità nazionale»[4]. Al momento della battaglia del Piave, Turati a nome del GPS dichiaro: «Noi ci sentiamo tutti rappresentanti della nazione in armi…» inaugurando per giunta la nefasta abitudine della sinistra di trincerare il proprio opportunismo dietro la distinzione tra l’ora delle accuse e quella della solidarietà[5].

Questa politica, insieme con il tradimento dei socialdemocratici europei, attirò le feroci critiche della gioventù socialista. Bordiga – che del PCd’I sarà tra i futuri fondatori –  dalle colonne di Avanguardia schernì i deputati socialisti che tentennavano lasciandosi travolgere dall’entusiasmo per la chiamata alle armi in nome del supremo interesse nazionale. «Quando si ammette in nome del socialismo una categoria di guerra – scrisse –  sarà sempre facilissimo alla classe dominante, che sola ha gli elementi della situazione, prospettare la sua guerra come rientrante in quella categoria e strapparle l’adesione socialista, chiamandone magari i leaders a partecipare al ministero per la difesa nazionale»[6].

Il PSI inoltre prigioniero di questo scontro e di retaggi ideologici positivisti non seppe e non volle intraprendere un’azione realmente rivoluzionaria. Il limite storico del massimalismo socialista fu quello di non rompere con i riformisti, né fino in fondo con le loro teorie, né con la loro prassi. Il PSI non volle mai – per dirla con Lenin  – «approfittare delle difficoltà del proprio governo e della propria borghesia al fine di abbatterli»[7] e rimase prigioniero di una visione spontaneista della lotta di classe, dell’idea che «il resto verrà poi, le rivoluzioni non si preparano a tavolino…»[8]. Risultato le masse superarono a sinistra il partito nell’opposizione alla guerra, i riformisti frenarono ogni ipotesi di strategia rivoluzionaria, i massimalisti non la ritenevano utile. In Russia ci fu la rivoluzione, in Italia no. Lo stesso accadde con il biennio rosso, dove la dirigenza socialista commise gli stessi errori, ma allora la reazione era pronta a colpire e l’uomo della provvidenza per la borghesia italiana fu proprio quel Mussolini ex socialista che con il suo interventismo aveva dimostrato di essere in perfetta sintonia, prima ancora che con il popolo italiano con gli interessi dei capitalisti italiani.

È per la stessa ragione che ieri come oggi, la retorica dell’unità nazionale, dei supremi interessi della nazione, della patria borghese è nemica dei lavoratori e deve essere rispedita al mittente. Ogni grande sconfitta della sinistra è stata accompagnata dal cedimento di fronte alla visione di interessi comuni tra capitalisti e lavoratori, quale ne sia la giustificazione. Lo fu durante la prima guerra mondiale quando i socialdemocratici accettarono di entrare in guerra per conto dei propri Paesi; lo è stato nel dopoguerra quando all’apice del conflitto sociale il PCI berlingueriano teorizzò l’idea del compromesso storico e della politica di solidarietà nazionale, al posto di dare il colpo al governo della DC attirando a sé anche la forza del movimento giovanile.

La sinistra moderna, figlia del revisionismo post ’89, ha incarnato il peggiore tradimento sociale degli ultimi decenni, e per questo paga le conseguenze. Non solo ha fatto propria la visione della società capitalistica, sposando apertamente gli interessi dei grandi gruppi finanziari, ma cosa ancora peggiore, ha riposto in questi gruppi e nelle loro organizzazioni internazionali (Unione Europea, ecc…) la propria fiducia per la costruzione di un sistema di convivenza internazionale non vedendone il carattere intimamente reazionario.[9] Il fallimento di questa illusione, rischia di far precipitare i lavoratori e le classi popolari dalla padella alla brace.

Il trionfo dei “sovranisti” altro non è che questo: la risposta al fallimento di una visione di legame tra gli interessi dei lavoratori e dei capitalisti a livello globale, con la ripresa della formula delle nazioni e degli opposti interessi nazionali. Una disputa tutta interna a settori del capitale in cui le classi popolari sono poste alla coda delle diverse fazioni.  La strategia di sfondamento dell’elettorato tradizionalmente socialdemocratico si fonda proprio sulla chiamata alle armi dell’unità nazionale, creando una immedesimazione unitaria di tutto il popolo, indipendentemente dalla propria appartenenza di classe nel destino comune della nazione. Così il conflitto tra gruppi capitalistici sull’appropriazione di quote di ricchezza viene dipinto come scontro tra l’Italia e l’Europa, come fossero entità astratte e unitarie, e così via per le crescenti dispute tra paesi. Il nazionalismo è il piano inclinato su cui si costruisce il futuro scontro, che a cento anni dalla Prima Guerra Mondiale non ammette a sinistra sconti e sottovalutazioni. Ogni cedimento alla sua retorica è un tradimento dell’interesse finale dei lavoratori, un nuovo rischio di compromissione nei disegni dei capitalisti. I neofascisti che avranno la strada spianata dal populismo oggi al governo, hanno già chiara la propria strategia. A noi il compito di demolire la retorica dell’ottica nazionalista e del comune interesse del Paese, oggi come ieri nemica dei lavoratori.

Come ebbe a dire Gramsci d’altronde, tanto l’inconsistenza socialdemocratica che la retorica della destra nazionaliste sono unite da un comune denominatore: «la politica di evitare il problema fondamentale, il problema del potere, e di deviare l’attenzione e le passioni delle masse su obiettivi secondari, di nascondere ipocritamente la responsabilità storico-politica della classe dominante, riversando le ire popolari sugli strumenti materiali e spesso inconsapevoli della politica della classe dominante».[10] Compito dei comunisti disvelare questa politica e riportare sempre la questione al problema fondamentale, far sì che quel problema sia percepito dalle masse e costruire su di esso una moderna strategia politica.

[1] Responsabile cultura di Casapound e collaboratore del quotidiano diretto e fondato da Belpietro.

[2] Gruppo parlamentare socialista

[3] F. Turati, resoconto dell’assemblea della sezione milanese del PSI in Avanti 29 gennaio 1915

[4] Avanti, 29 ottobre 1914

[5] Per Turati quella non era «l’ora delle discussioni teoriche, delle recriminazioni e delle polemiche», perché «non è l’ora delle parole, mentre lassù si combatte, si resiste, si muore, per così vasto e profondo arco di confine italiano, e le nostre anime sono tutte egualmente protese nella angoscia, nella speranza, nello scongiuro, nell’augurio».

[6] A. Bordiga, “Il fallimento del socialismo” in Avanguardia 1 novembre 1914.

[7] Lenin, Sul movimento operaio italiano «Chi accetta la parola d’ordine “né vittorie né sconfitte” può dire solo ipocritamente di essere per la lotta di classe, per la “rottura della pace civile” ma di fatto tradisce la politica proletaria indipendente, imponendo al proletariato di tutti i paesi in guerra un comizio perfettamente borghese: difendere dalla sconfitta i diversi governi imperialisti. L’unica politica di rottura, non a parole, della “pace civile”, di riconoscimento della lotta di classe, è la politica per la quale il proletariato approfitta delle difficoltà del proprio governo e della propria borghesia al fine di abbatterli».

[8] G. Serrati, Per sventare una triste congiura in Avanti 13 febbraio 1915.

[9] Si pensi alla nota affermazione di Lenin per la quale «Fra i capitalisti e fra le potenze sono possibili degli accordi temporanei» o anche alla corretta posizione espressa dal PCI al momento del voto sul MEC quando Pajetta affermò: «L’esame della situazione e la stessa storia ci autorizzano quindi a porre queste domande: a che cosa servirà questo strumento, il Mercato comune? Chi lo impugnerà? Contro chi verrà impugnato? Noi il fascino di questo europeismo lo respingiamo e non possiamo allinearci dietro la stessa barricata per difendere gli interessi della Confindustria nel nostro paese. Sbaglia profondamente chi pensa che un’economia diretta da forze imperialiste possa essere un elemento di progresso nell’avvenire.»

[10] A. Gramsci, Quaderni dal Carcere Quaderno 3 (XX) § (44)

2 Comments

  1. Felice Di Maro ha detto:

    Leggo quasi in finale dell’articolo che condivido: “Il trionfo dei “sovranisti”.

    In estrema sintesi ben raccoglie le varie articolazioni dell’articolo sulle quelle che sono state e sono le responsabilità della sinistra in funzione delle scelte tra le quali quella primaria di non essere anticapitalista e quindi di fatto è diventata un’area politica che orbita ormai nel circolo dei club dei capitalisti.

    Il problema oggi, almeno per i comunisti del Partito Comunista – secondo me- è che quando si parla della sinistra non c’è una definizione univoca ma solo varie interpretazioni.

    Quindi, colgo l’occasione per ribadire che bisogna uscire da questa confusione diciamo per comodità di espressione per questo commento. Al momento però non vedo altro che rilanciare il nostro programma comunista con aggiornamenti s’intende di quello presentato il 4 marzo e rilanciando perché siamo comunisti.

  2. peppe ha detto:

    LA odierna globalizzazione capitalistica pone problemi nuovi di anlisi,il sovranismo non solo a destra ma anche ed a mio avviso in forme per nulla minoritarie a sinistra iompone una riflessione ed un tentativo per nulla toprbido, ma chiarificatore sulle forme del conflitto che si sta manifestando

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