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Le mani sulla città.

di Alessandro Mustillo

Che lo scontro tra la sindaca di Roma, Virginia Raggi, e il suo assessore all’Urbanistica Paolo Berdini non fosse questione di semplici dichiarazioni è cosa nota. Chiunque non sia appassionato al gossip o riduca la sua funzione a quella del semplice tifoso, come molti grillini fanno in queste ore, sa bene che la portata degli interessi in gioco è ben altra. A chiarirlo è stata la stessa Raggi che ha motivato la sua scelta di non sciogliere la riserva sulle dimissioni di Berdini con le scelte che l’amministrazione comunale romana sarà chiamata a fare su importanti questioni urbanistiche.

Al centro c’è lo stadio della Roma, ma non solo. In gioco c’è la natura dei cinque stelle divenuti forza di governo a Roma, rispetto a promesse impegnative prese sulla lotta contro i poteri forti romani, e prima di tutto contro i costruttori e le politiche di cementificazione. Una battaglia che riprende le parole care alla sinistra romana, che non a caso chiama un urbanista come Berdini, legato a quella visione di città che fu di Petroselli, delle migliori esperienze di governo cittadino, a dirigere l’urbanistica della capitale.

Nel 2014 il Movimento Cinque Stelle prese una posizione di forte critica rispetto al provvedimento della giunta Marino che autorizzava la costruzione dello stadio della Roma. All’epoca i grillini – giustamente – imputarono a Marino la responsabilità politica dei favori fatti ai costruttori, sostenendo che il valore dei terreni sui quali insisteva la dichiarazione di pubblico interesse sarebbe decuplicato e che l’affare sarebbe stato delle famiglie Parnasi e Armellini (rispettivamente costruttori e proprietari dei terreni, sulla cui acquisizione era in corso un’indagine). I cinque stelle evidenziarono giustamente che «con la scusa di costruire uno stadio, in realtà si costruisce un intero quartiere, andando ad intasare un intero quadrante della città», ricordando che l’86% delle cubature previste non aveva a che fare con lo stadio, stravolgendo piano regolatore voluto da Veltroni, già generosissimo quanto a concessioni per i costruttori. Si evidenziava poi l’irrazionalità della costruzione di un ennesimo centro direzionale, i problemi derivanti dai trasporti locali, e la condizione idrogeologica della zona che rendeva estremamente problematica la costruzione dell’impianto, salvo costi scaricati sulla collettività.

Qualcuno ricorderà che appena qualche mese fa la giunta – Berdini in testa – aveva pesantemente vacillato su un’altra promessa dei cinque stelle: il no alle olimpiadi a Roma. Allora l’intervento dall’alto di Grillo, commissariò di fatto la scelta della giunta, mentre il tutto veniva confuso con questioni di gossip e antipatie interne alla pattuglia grillina in Campidoglio. Allora come oggi dietro lo scontro ci sono le mani dei palazzinari sulla città. La questione è lo stadio della Roma, ma è anche la gestione della polveriera dei piani di zona, e ancora più in generale le scelte sul futuro delle scelte urbanistiche di una città che avrebbe bisogno di un’inversione completa rispetto alle politiche realizzate fino ad oggi.

Il grande errore di Berdini e di quella parte della sinistra – intellighenzia o movimento – che ancora oggi guarda con speranza, ai cinque stelle è stato non comprenderne in fondo la natura. Non capire che esiste una differenza sostanziale tra le aspirazioni dell’elettorato e dei sostenitori a cui non corrisponde la stessa limpidità, coerenza, convinzione, nei vertici del movimento. Lo stadio della Roma è divenuto la partita con cui si controbilancia la scelta del no alle Olimpiadi, con una rivincita di quei settori che già allora volevano una decisione opposta, e con la pressione di accreditare il movimento come forza di governo in un paese capitalistico, dove dire no al potere dei grandi settori economici, significa non poter aspirare ad essere forza di governo.

Il fatto che si tratti di un’opera voluta dalla più grande squadra sportiva della Capitale, con un enorme numero di tifosi in città, non può far chiudere gli occhi su quel progetto, anche a rischio di perdere qualche consenso, rispetto alla campagna pubblicitaria scatenata ai massimi livelli dalla Roma. Un ente pubblico ha il diritto ed il dovere di imporre gli interessi della collettività, l’aspirazione alla realizzazione di una città vivibile e sostenibile, come Roma oggi non è, sugli interessi speculativi di un privato. Non è una città quella che permette di costruire dove interessa e non dove sia utile. Sul Corriere della sera l’architetto Paolo Portoghesi ha scritto: «per una opera pubblica così importante in un paese civile sarebbe il Comune a scegliere la collocazione», esprimendo giudizi assai condivisibili sull’attuale condizione di Roma.

Se Roma oggi è una città invivibile è anche e soprattutto grazie ai continui assegni in bianco dati ai costruttori, ad un’urbanizzazione irrazionale dettata solo dalle esigenze del profitto dei grandi gruppi, in cui la collettività si è caricata e si carica quotidianamente, dei costi economici e sociali del modo in cui i palazzinari hanno realizzato il loro profitto. Ogni minuto che spendiamo nel traffico della città per spostarci da casa a lavoro è colpa di quelle scelte. Lo è l’assenza di una metropolitana e di un sistema di trasporti efficace. Lo sono le mancanze di aree verdi, di servizi accessori nelle periferie: tutti previsti originariamente nei progetti approvati e caduti sotto il peso di varianti, mazzette e appoggi politici una volta iniziati i cantieri.

La partita che si gioca sullo stadio della Roma non è diversa da tutto questo. Per consentire la costruzione su terreni di esondazione del Tevere le spese degli impianti sono a carico dei romani. Non sono previste opere in grado di assicurare trasporti efficienti: è giudicato irrealistico il prolungamento della metro B per il carico che ci sarebbe sulle fermate dell’EUR, non c’è alcun intervento sulla Roma-Lido, l’idea del ponte sul Tevere non si è dimostrata realizzabile. In un’area in cui il Piano regolatore prevedeva la costruzione di 112.000 mq per impianti sportivi in un’area di verde privato attrezzato, oggi si parla di oltre un milione di metri cubi (tanto per capire l’equivalente di 120 palazzi da sei piani), in cui solo il 14% destinato allo stadio, che tra l’altro non sarà neanche di proprietà della Roma come noto. E qui gli interessi in gioco sono quelli dei costruttori, ma anche delle banche, Unicredit in testa.

Il Comune potrebbe e dovrebbe imporre una soluzione che soddisfi prima di tutto le esigenze di Roma, che fermi una pratica che per anni ha distrutto la città. Non è l’ideologia del no, come oggi viene denigrata ogni opposizione ai piani dei palazzinari. È la volontà politica di chi non intende avere un’amministrazione comunale supina ai loro interessi, che non coincidono con quelli collettivi. Il ricatto dell’appiattirsi ai desiderata della finanza, dei costruttori, dei grandi gruppi e ai loro interessi speculativi, oppure essere tacciati di immobilismo e conservatorismo lo respingiamo al mittente.

La soluzione di compromesso con una parziale riduzione delle cubature non altererà il centro della questione. Il Movimento Cinque Stelle, mandando via Berdini, firmerebbe ufficialmente il suo patto con i costruttori romani e con quei poteri forti che a parole si dice di voler combattere. Il risultato sarà che per l’ennesima volta le mani dei palazzinari sulla città si confermeranno il vero motore del potere che comanda a Roma. Con buona pace di chi nei cinque stelle ha nutrito illusioni e aspettative mancate.

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