Ponte sullo Stretto, a volte ritornano

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Ponte sullo Stretto, a volte ritornano

di Alberto Lombardo

pubblicato anche su https://www.cumpanis.net/ponte-sullo-stretto-a-volte-ritornano/

 

Una relazione irricevibile perché viziata dalla esclusione pregiudiziale di una delle alternative (il miglioramento e potenziamento con soluzioni innovative del traghettamento) e perché mancante degli elementi di base essenziali – costi di realizzazione, manutenzione e gestione e valutazione degli impatti ambientali – per poter giustificare la scelta di ponte. Per questo la Relazione va rinviata al Ministero per le Infrastrutture e la Mobilità Sostenibile, perché si proceda davvero ad un vaglio delle ipotesi più sostenibili e realizzabili per il Paese dal punto di vista economico-finanziario, sociale e ambientale.

(https://www.wwf.it/news/notizie/?58441/Ponte-sullo-Stretto-il-contro-dossier-degli-ambientalisti)

Così sintetizzano Kyoto Club, Legambiente e WWF il loro contro-dossier  “La corretta valutazione delle alternative all’attraversamento stabile dello Stretto di Messina”, in cui contestano le conclusioni della Relazione del Gruppo di Lavoro (GdL) incaricato di valutare le alternative per l’attraversamento stabile dello Stretto di Messina trasmessa al Parlamento dal Ministro delle Infrastrutture  e la Mobilità Sostenibile, Enrico Giovanni, il 7 maggio scorso.

Il contro-dossier è dal tutto esauriente per quanto riguarda i punti tecnici salienti:

  • il General Contractor non ha mai prodotto gli approfondimenti tecnici ed economico- finanziari sul progetto del 2010 del ponte sospeso, che non ha mai superato la fase di conclusiva di valutazione di impatto ambientale

  • il ponte a più campate è solo una mera ipotesi del GdL, senza nemmeno uno studio di fattibilità

  • nella relazione del GdL mancano aspetti indispensabili per poter valutare la necessità di un’opera pubblica quali i costi di realizzazione, manutenzione e gestione, assolutamente superficiali le descrizioni degli effetti sociali e territorialie lacunose le valutazioni degli impatti sulle componenti

È quella del traghettamento per le associazioni, l’alternativa migliore dal punto di vista economico-finanziario, sociale e ambientale, su cui occorre investire anche per la ricerca di soluzioni innovative.

Vorremmo fare qui una riflessione politica sul perché assistiamo ogni volta al ritorno di questa discussione che dovrebbe ritenersi da tempo morta e sepolta da innumerevoli ineccepibili controdeduzioni tecniche ed economiche non solo di ambientalisti, ma anche di tecnici e economisti.

Non basta usare l’argomento (vero, ma un po’ qualunquista) per il quale nei decenni il ponte è già costato 300 milioni di euro per dipendenti, gare e appalti vari (e attualmente costa 1.500 euro al giorno pur non svolgendo attività) e altri 700 milioni rischia di doverne costare per il contenzioso con l’ex Impregilo. Una colossale mangiatoia di soldi pubblici, ma non certo l’unica.

Anche l’argomento che addebita la voglia di fare il Ponte alla voracità delle mafie siculo-calabresi non sta in piedi, almeno non sta in piedi da sola. Non avrebbero certo l’esclusiva dei profitti, che invece si indirizzerebbero verso le casse di aziende nazionali e multinazionali. Anche politicamente, se si può pensare che a quegli oscuri interessi possano essere stati succubi governi del passato, ma certamente il governo Draghi risponde a riferimenti ben più forti e internazionali, le cui armi non sono la lupara o il tritolo, ma le portaerei e la bomba atomica.

E allora?

Prima domanda: il sistema capitalistico italiano ed internazionale ha interesse allo sviluppo della Sicilia e del Sud in generale?

Seconda domanda (subordinata alla prima): il Ponte sarebbe davvero un volano per lo sviluppo o sarebbe la tomba dello sviluppo della Sicilia?

Fin dai tempi della Cassa del Mezzogiorno, i fondi destinati al sud non erano aggiuntivi, ma sostitutivi. Essi consentirono per un breve ventennio (’50 e ’60) che si stringesse il gap col resto dell’Italia. Dopodiché la deriva del Sud è continuata e si è aggravata. Naturalmente accompagnata dagli alti lai di tutti i partiti e dei governi che si sono succeduti, delle promesse puntualmente mancate.

Vittorio Daniele, Paolo Malanima, Il prodotto delle regioni e il divario Nord-Sud in Italia (1861-2004)

 

Fino ad arrivare al persistente disastro degli ultimi anni, in termini di insuperabile ed anzi cronico divario economico a cui dal 2000 corrisponde un’inevitabile emorragia demografica.

 

Dati ISTAT, elaborazione nostra. L’attività economica è misurata come valore aggiunto, a prezzi costanti, relativizzata alla popolazione. L’andamento della popolazione in numeri indici, base=100 1995.

 

Cose note e stranote, dette e stradette.

Perché il capitalismo italiano (e in verità anche europeo) ha bisogno di avere una sacca di sottosviluppo interno così vasta, che non produce, ma assorbe, non fa concorrenza producendo, ma invece compra? Se non abbiamo come guida alla comprensione la chiave di lettura marxiana della sovrapproduzione non si può capire questa contraddizione.

Non è vero che se non si sviluppa il sud non si sviluppa l’Italia, è vero l’esatto contrario nel modello capitalistico, che ha bisogno di creare sacche di sottosviluppo interne (dall’Irlanda fin dai tempi di Cromwell, al Mezzogiorno d’Italia dalla nostra Unità, alla più recente ex-DDR per la Germania) ed esterne (tutte le colonie e semicolonie del XIX secolo e le nuove ricolonizzazioni del XX).

La storia del sud, seguendo le orme della quistione meridionale di Gramsci e delle preziose elaborazioni di Emilio Sereni[1], si può riassumere in: desertificazione economica e sociale, forte emigrazione con prelievo selettivo di forza-lavoro anche qualificata, sostegno al reddito del sud (a spese dei lavoratori del resto d’Italia) ma non della sua capacità produttiva per sostenere la ricettività come mercato protetto, creazione di aree politicamente subalterne in grado di assorbire le attività industriali più devastanti senza i costi necessari in altre aree più forti (da Taranto a Augusta). Il sistema politico-mafioso è lo strumento del capitalismo per assicurare tutto ciò. Con o senza tritolo.

Se questo primo punto è accettato, passiamo al secondo.

Perché il Ponte di Messina serve a inasprire il sottosviluppo del Sud.

Anche qui il conto è presto fatto. Se la quota dei piani del Recovery Fund che andrà al sud è fissata e se entro questa quota vi sono le “grandi opere” (Ponte, Alta Velocità), queste andranno ad assorbire la maggior parte dei contributi. I profitti prenderanno la strada del nord, dove sono basate le grandi aziende che le realizzeranno, mentre una quota minima potrà essere usata per le opere che davvero servirebbero: sistemazione del territorio, ammodernamento delle infrastrutture già esistenti e realizzazione di tante piccole nuove, compagnie di trasporto pubbliche e non in mano a privati italiani (quasi monopolio dei traghetti sulla Stretto) o stranieri (fallimento delle compagnie aeree regionali e nazionali, mentre Ryanair prende i sussidi pubblici).

Le mirabolanti cifre sul traffico passeggeri annuo (superiore al milione di unità) servono a battere la grancassa, magnificando il Ponte come la soluzione più favorevole per risolvere i problemi atavici siciliani. Peccato che però quel traffico è prevalentemente costituito da pendolari, che non hanno nessun interesse a passare lo Stretto in auto (ma non dovevamo disincentivare questo mezzo di trasporto?), bensì attraverso un agile ed economico mezzo pubblico, come il traghetto. Quindi i traghetti non solo resteranno (anche perché i venti della zona si prevede renderanno il Ponte impraticabile per varie giornate l’anno, si calcola fino a un terzo), ma essendo più economici per il traffico pendolare, renderanno improba la già irrealistica possibilità di rientrare nelle spese per l’investimento in tempi non geologici. Infatti soldi privati non ce n’è, ma solo investimenti con ritorno certo e garantito dallo Stato. Alla faccia del rischio d’impresa!

Questa necessità di mantenere i traghetti naturalmente è legata all’opzione del ponte a un’unica campata costruito molto a nord di Messina e di Villa, per non parlare di Reggio. Infatti ora, per tamponare queste obiezioni, si riaffaccia l’ipotesi di un ponte a tre campate costruito molto più vicino alle due città dello Stretto. Peccato che si metto di traverso i geologi, perché il terreno dove piantare i piloni non è affatto idoneo. E infatti, come rileva il contro-dossier degli ambientalisti, non ci sono neanche gli studi di fattibilità.

Tutte queste cose sono stranote e fa specie che ci si debba tornare.

Quello che a noi Siciliani già ci si aspetta di sentire, se e quando il Ponte dovesse essere avviato (perché sulla ultimazione ho forti dubbi), sarà:

“Ma come? Vi stiamo facendo il Ponte e voi pretendete altri soldi?”

 

[1] Sereni E., Il Capitalismo nelle campagne (1860-1900), Einaudi, 1948.

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