ASCESA E DECLINO DELL’IMPERO STATUNITENSE

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ASCESA E DECLINO DELL’IMPERO STATUNITENSE

È uscito il volume A. Pascale, Ascesa e declino dell’impero statunitense, tomo 1 – Genesi di un regime elitario (dalle origini al 1945), La Città del Sole-L’AntiDiplomatico, Napoli 2022.

Il testo consta di 620 pagine ed è acquistabile al prezzo di 28 euro nelle migliori librerie e con uno sconto dai rivenditori online.

Di seguito la Presentazione di Alberto Lombardo

 

PREFAZIONE

 

Sto scrivendo la Presentazione di questo bellissimo libro di Alessandro Pascale all’indomani del ventesimo anniversario dell’11 settembre 2001. Chi legge, quel giorno sarà stato inondato da un profluvio di retorica sulle “virtù americane”, sul ruolo “storico” che gli Stati Uniti hanno svolto fin da prima della propria fondazione, sul fatto che questa sia “la più solida e potente democrazia del mondo”, capace di “resistere e riprendersi da ogni avversità” e di “proiettare verso il resto del mondo la sua luce di civiltà e libertà” per i popoli e gli individui.

Credo che un’attenta lettura del libro che avete in mano sia il miglior antidoto contro questo avvelenamento di massa che subiamo a ondate periodiche.

Quest’anno questa ricorrenza a numero tondo è caduta all’indomani di uno dei rovesci più rovinosi che gli USA abbiano subito nella loro ingloriosa storia militare. Si badi bene: l’esercito statunitense non è venuto via dall’Afghanistan perché sconfitto militarmente come i francesi a Dien Bien Phu, né perché il governo federale aveva esaurito il numero di zeri da aggiungere nei loro computer per stampare dollari virtuali per finanziare, non solo la guerra, ma tutto l’apparato industriale militare che in questi vent’anni (a voler limitarsi alla vicenda afghana) si è magnificamente ingrassato, e con esso tutti i traffichini e trafficanti di armi e droga del mondo.

Gli USA semplicemente – e molto più minacciosamente – si stanno riposizionando per un nuovo confronto globale con tutto il resto del mondo. In primis contro i renitenti al sistema, ossia tutte le nazioni che non vogliono subire i diktat della finanza americana; il fronte avversario è ostico, i tentativi di dividerlo non hanno successo, anche perché sono condotti maldestramente da personaggi che coi loro atti arroganti riescono a far mettere insieme contro di loro “il diavolo e l’acqua santa”. Poi contro i renitenti alla leva, ossia i governi delle nazioni sottomesse – chi volente e beneficiante, chi nolente ma arruolato lo stesso a forza – che devono rispondere alla “chiamata alle armi”; il cosiddetto ministro degli esteri dell’Unione Europea, Borrell, lo ha detto chiaramente: «dobbiamo fare la nostra parte», ossia dobbiamo cominciare a fare noi le guerre degli USA. In ultimo contro la classe lavoratrice dei paesi della cittadella imperialista, che devono prepararsi a fare da moderna “carne da cannone” – non più forse coi loro corpi, ma certo coi propri salari e i propri risparmi – nell’escalation a cui l’imperialismo ci chiama.

L’ingloriosa fuga da Kabul, questo riposizionamento, questo ritrinceramento per scatenare con slancio moltiplicato la nuova offensiva, ha avuto un costo che gli strateghi hanno messo nel conto: una calcolata perdita di credibilità e autorevolezza da parte del capobanda. Mal di pancia e persino panico, da Taiwan a Kiev, ossia negli avamposti la cui esistenza artificiale dipende esclusivamente dalla volontà del Signore di assicurare ai vassalli la propria “protezione”. Da Siciliano uso questa parola, “protezione”, con molta circospezione, ma qui credo di poterla giocare lasciando trasparire tutti i significati che ne trasudano l’estrema violenza più o meno occulta.

Naturalmente l’apparato mediatico embedded dovrebbe costituire uno strumento di recupero sufficientemente efficiente e collaudato per attutire il colpo e rimbellettare il Signore un po’ stazzonato. Ma forse questa volta hanno sbagliato i conti e la perdita di prestigio e di credibilità subita a Kabul avrà, nel lungo periodo, un effetto più devastante di quello che ebbe Saigon sulla presa ideologica dell’imperialismo americano. La “vietnamizzazione del conflitto” ebbe un qualche respiro, gli USA vennero via dal terreno (non dall’aria) gradualmente e il regime fantoccio restò in piedi alcuni mesi. A Kabul non hanno salvato neanche le apparenze, e i patetici balbettii del (canuto) attuale facente funzione di Presidente, che scarica sul precedente (dal crine fluente) le responsabilità, consegnano alla storia una scenetta che incarna la decadenza della superpotenza.

Possono essere così stupidi e privi di memoria da ritenere di poter continuare a spadroneggiare senza il supporto dell’egemonia? Oppure ritengono che l’istupidimento dei propri cittadini sia andato così avanti da poterli manipolare a piacimento nonostante e contro tutto? Vedremo.

Giunge qui a buon punto la preziosa lettura della fatica che Alessandro Pascale ci offre in queste pagine, che sembrano lunghe, ma scorrono con la fluidità di un romanzo. In effetti è proprio una rappresentazione scenica che ci viene offerta in questo primo dei due atti di cui si compone l’opera.

Questo primo atto, dai prodromi al 1945, copre uno spazio storico che forse è il meno noto, fuori dagli usuali studi scolastici, e che necessita di quella “contronarrazione” essenziale per capire come siamo arrivati a quel fenomeno che chiamiamo imperialismo statunitense.

Le caratteristiche peculiari di questo affondano le radici nel passato e ne fanno una delle strutture più contraddittorie della storia dell’umanità. Queste contraddizioni interne che travagliano gli Stati Uniti fin da prima della Fondazione, ci mettono in condizione di coglierne gli aspetti di maggiore debolezza, ma anche di maggiore resilienza, che ne spiegano il “successo travolgente” che ha avuto in questi 250 anni.

Pascale ci aiuta a rispondere alla domanda: “perché alla fine sono emersi gli USA?”. Indaga sulle condizioni oggettive che ne spiegano lo sviluppo economico: anzitutto l’ampia disponibilità di risorse, ed in particolar modo le terre “vergini”, su cui si basa un’agricoltura rivolta all’esportazione che gode di tecniche moderne. L’assenza del feudalesimo e il pieno dispiegamento di rapporti di produzione capitalistici pone gli USA un passo avanti alla “vecchia” Europa.

Un’altra lettura illuminante a cui, in proposito, mi rifarei è ovviamente Americanismo e fordismo, in cui Gramsci esplora proprio questo nesso tra velocità di sviluppo e assenza di forti rendite parassitarie. Aggiungerei un ulteriore contributo utile dal punto di vista della messe di dati, ma meno condivisibile per le prospettive proposte, ossia Il capitale nel XXI secolo di T. Piketty.

 

La storia degli Stati Uniti d’America è storia di contraddizioni.

La prima contraddizione sta proprio alla radice del pensiero costituzionale nordamericano: Repubblica o Democrazia. Oggi siamo abituati a vedere alcuni termini usati come sinonimi – libertà, democrazia, repubblica – ben frullati in un pastone da far mandar giù per il gozzo a cittadini da indottrinare ciecamente. Invece, seguendo Pascale, ci renderemo conto dell’enorme importanza che ha avuto nella formazione degli Stati Uniti la lotta tra le aspirazioni democratiche del popolo – un «carattere e una cultura popolare, fondate sull’autogoverno e sull’individualismo che avevano caratterizzato in maniera indelebile l’identità degli americani» – che ne è stato indubbiamente l’artefice, e le architetture costituzionali create affinché l’azione di governo di quel popolo fosse sterilizzata fin dall’origine, «trovando una sintesi oligarchica di massa duramente contestata e inizialmente assai fragile, ma capace col tempo di diventare il pilastro portante della società statunitense». Prova di ciò si ha nel fatto che «la Rivoluzione americana non meriterebbe nemmeno questa definizione: non ebbe alcuna delle sconvolgenti caratteristiche proprie, per esempio, di quel che avvenne in Francia nel 1789 o in Russia nel 1917. Venne guidata non da visionari fanatici come Robespierre, Lenin o Mao Zedong, ma da un gruppo di gentiluomini conservatori e per lo più benestanti».

Tuttavia saremmo cattivi marxisti se non cogliessimo il nucleo dialettico del giudizio di Marx, che ha messo in rilievo l’enorme significato progressivo dell’instaurazione della forma di governo repubblicana negli USA, mentre il resto del mondo era dominato esclusivamente da monarchie e latifondisti. Quel mondo si ribellò proprio contro un’Inghilterra in cui era presente un dualismo di potere tra aristocrazia e borghesia fin dalla rivoluzione di Cromwell, e che rappresentava la forma più avanzata della società dell’epoca.

Leggere il passato con gli occhiali odierni, ma sempre concretamente e obiettivamente.

La seconda contraddizione è quella tra l’ideologia della libertà, addirittura del diritto per tutti gli uomini a “perseguire la felicità” su questa Terra, e il mare di sangue su cui questa Repubblica è stata fondata, fino a meritare il titolo di “democrazia genocidaria”. Dai neri ai nativi, dagli immigrati europei a quelli asiatici, gli USA sono il paese dei genocidi, della discriminazione, dell’oppressione, del razzismo mai superato. Anche i movimenti odierni che si oppongono al razzismo non sfuggono all’assimilazione, o comunque al tentativo di assimilazione, da parte dell’ideologia borghese, che cerca di incanalarli all’interno di percorsi inoffensivi, privi di qualunque connotazione di classe, in cui la ricca donna nera risulta oppressa contrariamente al maschio bianco che non riesce ad arrivare a fine mese, salvaguardare la casa dall’esproprio della banca, fare studiare i figli in una scuola degna di questo nome e proteggersi contro eventi avversi quali malattie o calamità.

La terza contraddizione è quella che si manifesta nella Guerra Civile tra i residui di un’economia latifondista e un’economia modernamente capitalistica.

«Marx nel Capitale definisce questa guerra “l’unico avvenimento grandioso della storia dei giorni nostri”, configurandola come un conflitto di classe, nonostante a scontrarsi non siano, apparentemente, una classe dominante e una classe oppressa. La lotta di classe, che ha visto finora come baricentro principale la questione abolizionista, può ora dispiegarsi sul classico conflitto capitale-lavoro, a partire da rapporti di forza nettamente sfavorevoli, vista l’affermazione del dominio incontrastato della borghesia».

Vorremmo parafrasare in modo forse un po’ banalizzante questa contraddizione: i marxisti sono per la rivoluzione proletaria; la rivoluzione proletaria la fanno i proletari (magari possiamo dire, la guidano) e non gli schiavi (e neanche i contadini del Meridione di tutto il mondo); quindi intanto bisogna che il capitalismo sviluppi tutte le proprie potenzialità, distrugga i residui del vecchio mondo e ponga finalmente le condizioni per l’avvento della classe che lo seppellirà. Ancora una volta riecheggiano le argomentazioni, infinitamente più complesse e profonde di quelle qui da me sintetizzate, dal Manifesto delle due Barbe, al già citato Prigioniero sardo.

Che poi gli esiti delle Guerre Civili (negli USA come in Italia) abbiano messo capo a risultati in cui la storia sembra essere andata indietro, in cui le condizioni di vita delle classi oppresse possano addirittura essere peggiorate, non modifica di una virgola le considerazioni precedenti, in quanto si collocano su un livello del tutto diverso, quasi ortogonale, rispetto a quelle.

La quarta contraddizione è quella per cui la nazione dei piccoli proprietari, gelosi del proprio individualismo, che amministrano giustizia e ordine pubblico nel modo più vicino alla base popolare, poi hanno creato multinazionali che sono cresciute fino a diventare più potenti dello stesso Stato federale, trasformatosi in quell’ente ipertrofico che assorbe in percentuale e in assoluto quantità di ricchezza nazionale che non trova paragoni.

La quinta contraddizione è che la democrazia americana, che si vanta di essere una delle poche a non aver mai subito una dittatura fascista (anche se il maccartismo ci andò davvero vicinissimo), è stata quella che ha “esportato” più regimi fascisti nella storia. Ma questo si spiega bene ricordando che

«in generale le oligarchie finanziarie preferiscono i governi democratici a quelli autoritari. La stabilità del sistema è consolidata da periodiche consultazioni popolari che ratificano l’operato dei governi – questo e non altro è il normale significato delle elezioni parlamentari e presidenziali democratiche – ed evitano alcuni pericoli molto reali di dittatura personale o militare alla stessa oligarchia. Per questo nei paesi capitalistici sviluppati le oligarchie sono riluttanti a far ricorso ai metodi autoritari ed escogitano invece metodi più sottili e indiretti per realizzare i loro fini. Fanno concessioni per disarmare i sindacati e i movimenti politici operai che professano idee radicali e ne conquistano i dirigenti con denaro, lusinghe e onori in modo che una volta al potere essi rimangano nei limiti del sistema sforzandosi solo di ottenere alcune concessioni buone a soddisfare la base, senza mai minacciare i veri bastioni del potere oligarchico nell’economia e del potere coercitivo nell’apparato statale».

Se vogliamo, possiamo dire che il potere oligarchico negli USA è sempre stato tanto forte da sentirsi così al sicuro da non aver mai dovuto ricorrere ai mezzi estremi e “sgradevoli” della dittatura aperta.

La sesta contraddizione è tra il capitale privato e l’intervento dello Stato. Il paese più liberista al mondo si basa essenzialmente su una costante iniezione di capitale pubblico nell’azienda più fiorente, quella militare, dalla quale poi i profitti colano su tutto il resto del capitalismo statunitense. Il paese più liberista al mondo usa il proprio Stato per svolgere una funzione di gendarme internazionale legibus solutus, con il compito di minacciare i popoli di tutto il mondo e di calpestare il diritto internazionale ad ogni piè sospinto con embarghi, blocchi, fino a veri e propri interventi militari.

La settima contraddizione è che la più solida democrazia del mondo ha soffocato senza pietà i movimenti sindacali e politici socialisti con la scusa che essi fossero contrari allo “spirito americano”, sebbene questo spirito americano sia appunto fondato sulle libertà di pensiero e di organizzazione.

L’ottava contraddizione è tra la libertà di ricerca scientifica e l’oppressione asfissiante delle oligarchie sulle istituzioni scientifiche e culturali del paese, dai college alle università, dal cinema all’informazione.

La nona contraddizione sta nel trionfo, squisitamente americano, della teoria economica del keynesismo, che promette la pace di classe in occasione della spoliazione dei popoli europei durante e in seguito alla Seconda Guerra mondiale.

La decima contraddizione è quella di un paese per sua natura isolazionista, non solo verso il resto del mondo, ma anche ideologicamente verso tutto ciò che non è il proprio forum internum; gli USA hanno esportato un numero di guerre intorno al mondo che non ha confronti nella storia dell’umanità. Il paese che ha sganciato le uniche due bombe nucleari sui civili – e non per abbreviare una guerra, ma per minacciarne un’altra – che fa la predica a chi cerca di proteggere il proprio paese dall’“esportazione di democrazia” dimostrata negli ultimi conflitti, dalla Libia alla Siria. Un popolo che si ostina a difendere uno Stato razzista e segregazionista, fonte dell’instabilità di tutta l’area mediorientale, come Israele. E si potrebbe continuare.

Per aiutarci a capire quale sia l’autorappresentazione nordamericana, ossia l’ideologia come falsa coscienza, vorrei citare un film del 1977, uscito subito dopo la sconfitta da parte degli USA in Vietnam: Star Wars. Un’operazione di riposizionamento ed elaborazione del lutto. Tutti ricordano come in quel film un pugno di indomiti piccoli coltivatori si oppose alla strapotenza dell’“Impero”, dotato di armi supertecnologiche e innumerevoli truppe mercenarie. La “forza” degli insorti invece stava nella loro coesione morale e nell’attaccamento alla propria terra. Se noi europei identificavamo l’“Impero” con quello americano e i coloni coi vietcong, in realtà nell’immaginario americano l’Impero era quello britannico (l’antagonista della tragedia è “Lord” Fener) mentre gli insorti erano i coloni che si ribellarono alle invise tasse e al dominio inglese. Il tentativo di recupero delle antiche radici con cui gli americani sono stati nutriti fin da piccoli. Il tentativo di un’America democratica che, nonostante tutto, cerca di ritrovarsi nella propria storia. Lo stesso scenario ci è stato proposto ai piedi delle rovine fumanti del WTC l’11 settembre: “United we stand”. “God bless America” sempre e comunque, perché “noi siamo noi”, nonostante errori e cadute.

Non che questa retorica non abbia profonde radici reali nel popolo americano; non che non ci siano dei motivi per cui su ogni casetta sventoli la bandiera a stelle e strisce. Lungi da me la tentazione di voler irridere questo, come qualunque altro patriottismo di stampo popolare.

Il libro di Alessandro Pascale ci aiuta a capire le radici di questa nazione che, per quanto prodotto artificiale di migrazioni forzate – ma quale nazione non si è formata così nel passato? – per quanto governata da sempre dai peggiori criminali della storia, è il prodotto di telluriche contraddizioni. Non è quindi un antiamericanismo di stampo euroasiatico, spesso intriso di torbide reminiscenze reazionarie, che lo pervade, ma una materialistica disamina della storia di quel Paese, il cui studio può aiutarci a capire il passato e il presente, gettando qualche lume sul futuro.

Buona lettura.

 

Alberto Lombardo

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