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La crisi del sindacato in Italia

Da sinistra, il segretario generale aggiunto della Uil, Carmelo Barbagallo, il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, il della Cisl Annamaria Furlan. Fonte © ANSA

di Graziano Gullotta

La vicenda Almaviva di pochi giorni fa, ha riportato agli onori della cronaca uno degli elementi strutturali della società italiana di oggi: lo stato di crisi profonda del sindacato.
Una crisi generale che si aggrava di giorno in giorno, sia in termini di rappresentatività che in termini ideologici (di cui il primo aspetto è diretta conseguenza del secondo).

Il 2016 degli operai italiani si chiude con una serie di eventi che fanno riflettere e che portano ad inevitabili considerazioni. Il consolidamento oramai strutturale di morti sul lavoro, dovuto a carenze di investimenti in apparecchiature di sicurezza e monitoraggio (1246 secondo i dati INAIL nel 2015, 94 in più rispetto all’anno precedente), all’aumento dei ritmi di produzione già insostenibili, all’utilizzo di forza lavoro precaria a vario titolo che per questioni sia psicologiche che di formazione non può garantire qualità di lavoro a parità di sicurezza. A ciò si aggiunge l’aggravarsi dell’offensiva padronale in generale, con un aperto sostegno dello Stato attraverso le sue istituzioni non elettive (quell’apparato burocratico di livello medio alto che costituisce l’ossatura permanente di tutti quegli uffici giudiziari, politici ed economici che non variano con le elezioni) così come attraverso tutto l’arco di partiti politici che si sono avvicendati nei ruoli di rappresentanza e di governo, manifestando l’incapacità di fornire risposte concrete ai bisogni urgenti dell’intero popolo (ultimo gesto esemplare i 20 miliardi di euro sottratti alle tasche dei lavoratori e regalati ad una banca privata, il tutto in tempi rapidissimi). Ed infine la resa (non sorprendente) dei sindacati confederali con l’approvazione di un contratto nazionale per i metalmeccanici che assolve appieno interessi di imprese e sindacati collaborazionisti, con il famigerato “welfare aziendale”, ma non certo quelli degli operai che dovrebbe in primo luogo tutelare.

All’interno della fabbrica, il confluire di questi elementi, in combinazione con l’inasprimento della crisi economica capitalistica ormai decennale, rende chiaro come il sistema di democrazia sindacale e di rappresentanza, costruito e conquistato con la lotta di intere generazioni nel secolo scorso, sia definitivamente diventato inutilizzabile per gli interessi operai: sia nel “metodo”, cioè nel meccanismo di elezione e rappresentanza, e l’accordo del 10 gennaio 2014 ce ne aveva dato una prima forte prova; sia nel “merito”, con l’approvazione dell’ultimo contratto nazionale dei metalmeccanici che sancisce ad oggi il punto più basso raggiunto nell’epoca dei contratti nazionali di categoria.

La sfiducia nei confronti dei partiti politici, giustificabile, comprensibile e al contempo cavalcata egregiamente da movimenti che non offrono soluzioni strutturali (Movimento 5 stelle e Lega tra tutti), è poca cosa rispetto alla sfiducia generalizzata che si percepisce all’interno delle fabbriche nei confronti dell’istituzione sindacato in sé e delle organizzazioni specifiche in particolare: nessuno è esente da questo giudizio, nemmeno la gloriosa CGIL sulla quale, anzi, una rappresentanza e una storia più importante caricano di una responsabilità maggiore questa fase di smobilitazione, paragonabile come dimensioni e conseguenze sociali allo scempio politico effettuato dai dirigenti “comunisti” al PCI nel 1991.

Una situazione reale di contesto della pratica della lotta di classe che incide negativamente anche in quel processo embrionale di costruzione di un sindacato di classe, sempre all’interno di queste regole, ormai consunte: la debolezza organizzativa ed ideologica di queste piccole entità e la necessità improrogabile di elevare il piano del conflitto con strumenti capaci di rispondere colpo su colpo all’attacco padronale, mettono in evidenza grosse insufficienze in questo tipo di percorso, facendo pensare che forse le modalità e le strade possano essere diverse e con differenti risultati.

È impensabile che l’elevazione del livello dello scontro nelle fabbriche, con scioperi prolungati, occupazione e controllo operaio dei luoghi di lavoro, possa essere autogestita, o autogestita completamente dai lavoratori, in questa fase storica precisa nella quale gli operai sono in balìa di sindacati concertativi, collaborazionisti, partiti opportunisti e sciovinisti. Si rende necessaria la presenza del Partito Comunista dentro e fuori le fabbriche. Dentro per agitare e organizzare le lotte specifiche, fuori per coordinare e dare un’omogeneità alle stesse lotte e un orizzonte politico di avanzamento reale nei rapporti di forza.

D’altronde a livello storico l’esperienza sindacale italiana si è sin dall’inizio caratterizzata con un rapporto dialettico tra organizzazione sindacale vera e propria e partito di classe, prima il Partito Socialista e successivamente il Partito Comunista. Tale rapporto faceva sì che il radicamento territoriale del sindacato di classe e di massa fornisse più o meno indirettamente un sostegno, culturale e sociale, prima ancora che elettorale (la degenerazione del sindacato a mero strumento elettorale nei luoghi di lavoro, che i comunisti rigettano, è una prospettiva sbagliata che si è progressivamente affermata negli anni del revisionismo del PCI, decenni dopo la loro nascita), e che costituisse una fucina di quadri di estrazione proletaria all’organizzazione politica. Il partito a sua volta si impegnava nell’indirizzo politico delle lotte di fabbrica e a livello legislativo nella lotta istituzionale per la costruzione di condizioni di lotta più favorevoli.

Oggi siamo in una situazione nuova: non esistono partito di classe né sindacato di classe, se non in uno stato embrionale. Il vecchio modello organizzativo di rappresentanza sindacale, anche se in crisi, rimane il sistema istituzionale di rappresentanza all’interno delle fabbriche e dei luoghi di lavoro con il quale i comunisti devono confrontarsi.

Questo modello è fondato su due pilastri: l’elezione delle rappresentanze sindacali unitarie (RSU) e la praticabilità di lotte per miglioramenti di tipo “riformistico” nell’ambito dei rapporti economici aziendali. Risulta evidente che entrambi questi pilastri si stiano esaurendo o siano già esauriti. Se è chiaro ormai da tempo che non esistono più i margini di un avanzamento di tipo riformista all’interno della nostra società, anche sul tipo di elezione e di rappresentanza sindacale il sistema dimostra di non stare a passo coi tempi e con le necessità dei lavoratori, risultando escludente per una larga parte di operai con contratti atipici, interinali o voucher, i quali, sotto costante ricatto padronale, di fatto non partecipano a queste elezioni finendo per aumentare ulteriormente la propria diffidenza dall’istituto del sindacato.

Il ruolo di un partito rivoluzionario di classe dovrebbe allora incentrarsi nella costruzione, con gli operai e tra gli operai di fabbrica, di una nuova struttura, una nuova organizzazione. I quadri di partito, le avanguardie più coscienti o semplicemente gli operai più sensibili alle ingiustizie quotidiane imposte dal padronato, devono essere organizzati in strutture nuove, indipendenti e autonome da imprese e sindacati collaborazionisti. I “nuovi” sindacalisti, con o senza tessera di partito, devono essere valutati e votati realmente dagli operai, da tutti gli operai, da tutte le teste salariate sotto il capannone, qualunque sia il loro contratto, e devono rispondere agli interessi generali di classe che sono gli interessi più avanzati della classe operaia, ma soprattutto attraverso la risposta agli interessi immediati dei propri rappresentati: evitando quello che accade solitamente e che è accaduto ancora una volta in questa ultima consultazione, ovvero, dati alla mano, di registrare una partecipazione che taglia fuori una parte enorme di lavoratori, quando circa il 40% non ha votato o non ha avuto la possibilità di farlo.

Nel centenario della prima rivoluzione proletaria e socialista della storia, i comunisti di tutto il mondo si interrogano sui motivi della vittoria, sugli errori e sulle cause della sconfitta. Nel frattempo la lotta di classe continua: i comunisti oggi in Italia si impegnano per ridare coscienza e protagonismo alla martoriata classe operaia del nostro Paese, la classe attorno alla quale l’intero proletariato si stringerà, per un sussulto di dignità, una riscossa e poi una rivoluzione.

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