Chi produce realmente il valore?

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Chi produce realmente il valore?

Sul recente libro di Mariana Mazzucato, Il valore di tutto. Chi lo produce e chi lo sottrae nell’economia globale, edito da Laterza, possiamo dire che si inserisce in un filone, al quale appartiene anche Il capitale nel XXI secolo di Thomas Piketty, Bompiani. 

La linea è quella che, oscurando completamente le ragioni di classe che presiedono ai meccanismi del capitalismo, si concentra su aspetti che – per quanto molto appariscenti, quali la diseguaglianza o la improduttività di certi settori economici – non colgono la vera natura del capitalismo e quindi indicano azioni che non potranno dare mai una qualche soluzione alla sua crisi. 

Nel citato libro di Piketty il tema era quello della diseguaglianza, provocata – a suo dire – dal fatto che ci sia un rendimento del capitale superiore al tasso di crescita, che porta a una accumulazione di capitali senza limiti. La soluzione è vista in forme di imposizioni progressive del reddito. Rimandiamo ai commenti che già abbiamo avuto modo di fare all’uscita di quel libro (http://www.resistenze.org/sito/os/ec/osecfg09-016612.htm). 

Nel libro della Mazzucato invece si parte da una rivisitazione delle teorie del valore – da Smith, Ricardo, Marx, fino ai marginalisti – per criticare cosa si è inteso per “creazione del valore” e chi “crea valore”. L’abbandono, a detta della Mazzucato, della teoria del valore-lavoro, sostituita dalla teoria secondo la quale il valore è il prezzo di mercato, dalla contabilità nazionale a quella aziendale, ha fatto sì che vengano stimati come “creatori” di valore settori economici – in primis il commercio, ma anche la finanza e altri – che invece di “creare” valore, si limitano a “estrarre” a proprio favore il valore creato da altri settori. Fin quando ciò aiuta a fluidificare il mercato e quindi aiuta gli altri settori a “realizzare” la produzione e il prodotto sul mercato, si dice, è un fatto positivo, ma i guasti cominciano quando questi settori si trasformano in distruttori di valore. Ciò porta, nelle parole della Mazzucato, alla necessità di una rivalutazione del ruolo del settore pubblico, ossia dello Stato. 

«Negli ultimi 200 anni le innovazioni sono state determinate dalle interazioni tra pubblico e privato, tra legislatore, sindacati e imprese che hanno co-creato il contesto dello sviluppo. Invece ora il governo si limita a chiedere all’impresa: “Di cosa hai bisogno? Sussidi? Incentivi?”»  

«Se prevale la teoria del valore secondo cui tutto il valore è prodotto dalle imprese, il governo rinuncerà ad avere un ruolo.»  

«Se siamo vittima di una teoria del valore che nega il valore creato dal pubblico, è inutile fare investimenti e produrre nuove competenze nel personale statale. Se al pubblico lasci compiti burocratici, gli statali diventeranno burocrati.»i  

La soluzione alla crisi sarebbe quindi ridare allo Stato quel ruolo imprenditoriale e dirigista che il pensiero economico dominante gli ha negato. 

Ora, mentre il libro di Piketty non solo – e dichiaratamente – non ha nulla a che fare con l’opera di Marx, ma costituisce una critica al capitalismo molto lontana da quella del grande maestro di Treviri, la lettura del libro della Mazzucato potrebbe far attribuire a Marx una visione della teoria del valore-lavoro che non solo è diversa da quella realmente marxiana, ma potrebbe far credere che la soluzione “statalista” della Mazzucato si possa assimilare agli insegnamenti del fondatore del socialismo scientifico. 

Il presente articolo quindi non solo vuole ripristinare il punto di vista di Marx sulla teoria del valore-lavoro, ma vuole anche sottolineare il più completo distacco tra il marxismo e le soluzioni degli economisti “borghesi” odierni. 

Nel libro della Mazzucato, nel paragrafo Karl Marx sul lavoro della “produzione”, si dice: 

«… Marx introdusse una distinzione che è d’importanza cruciale per la sua teoria del valore e per tutte quelle successive: la modalità con cui diverse tipologie di capitalisti erano giunti a ottenere il loro profitto. Le prime due categorie che Marx identificò erano il capitale produttivo (o industriale) e il capitale commerciale. Il primo produce beni; il secondo fa circolare i beni vendendoli, e mettendo il denaro guadagnato a disposizione del capitale produttivo per acquistare i mezzi di produzione… Come spiegava Marx, il primo crea plusvalore, il secondo lo “realizza”.» 

Fin qui tutto bene, o quasi. Ma continua: 

«In un regime capitalistico, i capitalisti commerciali realizzano il valore prodotto dai capitalisti produttivi.» (cors. nostro). 

Purtroppo questa formulazione è molto fuorviante. La Mazzucato, non tenendo accuratamente conto di quanto ha riportato precedentemente nel suo stesso testo, sembra attribuire ai capitalisti la capacità di produrre valore. Ora ciò è completamente estraneo al pensiero di Marx. La sua teoria del valore implica che a produrre valore siano solo i lavoratori, che trasferiscono il proprio lavoro nel prodotto ma vengono pagati solo per la loro forza-lavoro impiegata, e che i capitalisti estraggono il valore prodotto, trattenendo il plusvalore. A questo proposito per Marx non c’è alcuna differenza tra settori produttivi e non produttivi in merito al ruolo dei capitalisti, i quali, dopo che il plusvalore è stato estratto, se lo ripartiscono in parti proporzionali al capitale impiegato. Continuiamo. 

«Tuttavia, poiché anch’esse [le imprese commerciali] sono imprese capitalistiche, richiedono lo stesso tasso di profitto del capitale produttivo. Di conseguenza una parte del plusvalore è utilizzata per remunerare tali imprese, diminuendo il tasso di profitto medio nell’economia.» 

Come potrebbe diminuire il “tasso di profitto medio dell’economia” se vi è solo una diversa ripartizione del plusvalore tra i settori? In realtà se esiste un capitale commerciale è perché esso aumenta la velocità di rotazione del capitale, accorciando i tempi di realizzazione del capitale e quindi facendo aumentare il tasso medio di profitto. Del resto, se il capitalista del settore produttivo non trovasse vantaggioso vendere la propria merce al capitalista commerciale, non si capisce perché dovrebbe farlo. Continuiamo. 

«Il capitale produttivo di interessi, a differenza di quello commerciale, non diminuisce il tasso di profitto generale; esso lo suddivide semplicemente fra coloro che percepiscono gli interessi e coloro che guadagnano i profitti.» 

Non si capisce in questa formulazione quale sia la differenza di ruolo tra il capitale commerciale e il capitale produttivo di interesse a proposito della suddivisione del profitto tra i settori, che avviene sempre sulla base della tendenza all’equalizzazione al tasso di profitto medio del profitto di tutti i capitalisti che partecipano al processo della produzione e della circolazione. Anche qui, se il capitalista produttivo non trovasse conveniente farsi prestare del denaro per aumentare il proprio profitto e quindi il tasso di profitto, non lo farebbe. Si badi bene che quando Marx parla di “capitale produttivo di interesse” non intende che il capitalista di quel settore “produce” valore, ma che esso “realizza” un profitto, partecipando all’“estrazione” di plusvalore realizzata dal capitalista produttivo. Continuiamo. 

«Infine, oltre a questi tipi di capitalisti, Marx ne indentificò un altro: i possessori di beni scarsi come la terra, il carbone, i brevetti, le abilitazioni professionali, e così via. Beni scarsi come questi possono portare la produttività al di sopra del livello normale. In cambio, ciò produce un “extraprofitto” – quello che Smith e Ricardo avrebbero potuto pensare come “rendita” – per i capitalisti, o per i proprietari di terra o di altre risorse, i quali possono sfruttare tali vantaggiose condizioni di produzione. In tal modo, Marx delineava una teoria dei ricavi “da monopolio”.» 

Per la verità Marx si oppone a Ricardo, che ammetteva l’esistenza solo della rendita differenziale, mentre egli dimostra che esiste, teoricamente e storicamente, anche una rendita assoluta. Inoltre egli dimostra la differenza tra la rendita e il ricavo “da monopolio”. 

Mariana Mazzucato, Professoressa all’University College di Londra e nominata il 29 dicembre 2017 Consulente Speciale per gli obiettivi orientati alla scienza e all’innovazione della Commissione Europea, può ovviamente avanzare le proposte che ritiene più opportune dal suo punto di vista. Da marxisti ci siamo permessi di puntualizzare alcuni cardini del pensiero di Marx. 

Quello che ci preme sottolineare qui è che – come per il caso Piketty – sono punti di vista e proposte molto lontani dal marxismo, che non ammette che ci siano capitalisti “produttivi” e che la distinzione tra settori produttivi e non produttivi non fa dei capitalisti dei primi degli “estrattori” di plusvalore meno “vampiri” dei capitalisti dei secondi. Quindi la distinzione tra capitalismo produttivo (“buono”, col quale i lavoratori devono allearsi) e quello speculativo (“cattivo”, contro cui tutti uniti, padroni e lavoratori, devono combattere) è l’opposto del marxismo. 

Secondo, Marx non prefigura uno stato che possa essere uno stato imprenditore che diriga l’economia, che «che stabilisce dove si deve andare». Per Marx chi stabilisce cosa produrre, quanto produrre e come produrre deve essere il proletariato, attraverso il suo stato e la sua forma sociale, che si chiama socialismo, e non attraverso lo stato borghese, che perpetua il capitalismo e che non fa altro che favorire l’estrazione di plusvalore dal lavoro del lavoratore. A questo proposito ci riferiamo al fondamentale testo di Marx, Critica del programma di Gotha. 

Terzo, entrando nel merito delle proposte della Mazzucato – coautrice di un altro libro dal titolo indicativo del suo pensiero “Ripensare il capitalismo: economia e politica per una crescita sostenibile e inclusiva” – riteniamo che tutte le proposte degli economisti, che prefigurano la possibilità di trovare rattoppamenti nella crisi capitalistica, siano non solo destinati a fallire, ma ritardino la definitiva uscita dal capitalismo, unica soluzione per l’umanità. Oggi il capitalismo soffre di una gravissima e irresolubile crisi di sovrapproduzione di merci e sovraccumulazione di capitali. Se l’economia si è spostata così fortemente sul lato della finanza è perché estrarre dalla produzione un profitto che riesca a remunerare la massa enorme di capitali è sempre più difficile, il saggio di profitto è sempre più in diminuzione. Quindi il capitale cerca di mercificare tutti i settori dell’economia, ossia trovare occasioni di profitto in altri settori che prima ne erano al riparo, come per esempio l’educazione, le grandi opere, gli armamenti. Uno stato borghese, per quanto indirizzato ad aumentare la redditività delle attività produttive, resta sempre un nemico dei lavoratori. Infatti, riflettiamo. Primo, da dove prenderebbero le risorse per fare investimenti? Naturalmente dai tagli allo stato sociale, alle pensioni ai salari pubblici e privati. Secondo, a chi andranno i benefici? Ai profitti dei capitalisti e forse in un secondo momento, come briciole che cascano dal tavolo, a qualche limitato settore di lavoratori.  

I tempi in cui, come negli anni Sessanta e Settanta in Italia, si facevano grandi investimenti pubblici sono terminati per sempre. Ieri il capitalismo italiano, fortemente sottocapitalizzato, aveva bisogno dell’intervento pubblico per creare le infrastrutture necessarie al proprio sviluppo. Ciò provocò che le briciole cascassero anche sulla classe operaia e fece commettere al PCI il tragico errore di sostenere queste politiche, come se fossero prodotte da uno stato sopra le classi e non da un stato borghese. Si parlava di “sviluppo del Paese”, senza tenere conto a chi andassero i benefici e a chi restasse il conto da pagare.  

Abbiamo visto in seguito quali sono state le conseguenze dell’indebitamento pubblico, creatosi in quella occasione e che fino a un certo punto sembrava potesse “galleggiare” in eterno: esso, dopo le riforme finanziarie del 1981 e poi con la firma dei Trattati di europei e l’entrata nell’euro, si è trasformato in una tagliola micidiale per i lavoratori italiani. 

Oggi il capitalismo italiano è in crisi di sovraccumulazione e anzi cerca luoghi dove investire in modo remunerativo, ossia in modo da estrarre il massimo profitto dai lavoratori. Le proposte che reclamano “più stato” non possono essere condivise dai lavoratori, se non si precisa la natura di classe di questo “stato”, di chi fa gli interessi e chi danneggia. Non può esistere uno stato sopra le classi, almeno fino a quando le classi stesse non si saranno estinte. 

La parola d’ordine del Partito Comunista sulle nazionalizzazioni infatti non è mai disgiunta dal contemporaneo esproprio senza indennizzo a danno dei padroni e dall’affidamento della direzione ai lavoratori. 

Mettiamo in guardia quindi i sinceri marxisti a non “innamorarsi” di proposte borghesi, che nascondono il veleno di classe e a rileggere sempre e con attenzione sui testi originali gli insegnamenti dei nostri Maestri, in primis Carlo Marx. 

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