Recovery Fund: uno, nessuno e centomila MES

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Recovery Fund: uno, nessuno e centomila MES

di M. B.

Mentre l’emergenza sanitaria si appresta a rientrare almeno in Europa, i Paesi si preparano ad affrontare la crisi economica provocata dal Coronavirus, una crisi di dimensioni mai viste e che secondo le stime più rosee porterà giù il PIL italiano di almeno 9 punti percentuali.

Il quadro istituzionale dell’Unione Europea si ritrova in questa situazione a doversi fare carico di una grande responsabilità: deve agire per conservare il consenso tra le masse, in modo tale da poter continuare ad esercitare il proprio dominio su di esse. Messo in disparte il progetto di un aggiornamento del divisivo MES, l’ultima trovata è quella del Recovery Fund che è stata presentata con gli applausi a scena aperta di pressoché tutti i principali schieramenti politici del continente. Ma che cos’è questo Recovery Fund? E dove sta l’innovatività di questa idea?

Il Recovery Fund si presenta come un programma di finanziamenti gestito a livello europeo e destinato ai singoli stati membri per supportarli nel contrasto alla crisi economica incombente e – come al solito – ha preso avvio soltanto dopo il benestare della Francia e della Germania. Le informazioni più diffuse parlano di un programma da 750 miliardi di euro da distribuire agli stati membri e suddivisi in sussidi a fondo perduto e prestiti. Questi 750 miliardi di euro saranno raccolti sui mercati finanziari attraverso l’emissione di titoli di debito europei a lunga scadenza garantiti dal bilancio comunitario. Essi saranno distribuiti agli stati membri dell’UE dopo varie trattative e a quel punto potranno essere impiegati. Questa è la narrazione che ci viene propinata comunemente, e che sembra descrivere un’Unione Europea diversa da quella che conoscevano e che sembra aver imparato la lezione della crisi del 2008. Persino il commissario per gli affari economici dell’UE – Paolo Gentiloni – si è espresso in questi termini.

Tuttavia, leggendo tra le righe degli articoli di giornale e sui documenti ufficiali, emergono alcuni risvolti meno cristallini e brillanti. Anzitutto quello sulla garanzia del bilancio comunitario sui titoli emessi per il Recovery Fund. Il bilancio comunitario, finanziato soprattutto con i contributi dei paesi dell’UE, è stato storicamente ed è attualmente molto modesto, e la prestazione di una garanzia – anche solo parziale – sui titoli di debito emessi significherebbe un aumento in volume del bilancio molto rilevante, che dovrà essere accompagnata ad un aumento dei contributi degli stati. Quindi i finanziamenti per contrastare la crisi, anche se distribuiti in un modo tendenzialmente equo, non sarebbero comunque regalati a nessuno.

Ma i risvolti pericolosi non si fermano a questo: infatti, una parte considerevole di questi finanziamenti saranno prestiti, che dovranno essere rimborsati. Per l’Italia si parla di una cifra in prestiti che si aggira intorno a 90 miliardi di euro, una cifra pari, all’incirca, alla dimensione di tre leggi di bilancio italiane: il rimborso, anche graduale, di questa cifra ridurrà la già ridotta libertà di manovra del nostro paese, nonostante esso sia la terza economia dell’Unione Europea.

Inoltre, questi finanziamenti elargiti non saranno liberi da condizioni o vincoli: questi arriveranno soltanto dopo varie contrattazioni. Il vicepresidente della commissione europea, Dombrovskis, ha dichiarato infatti che i fondi “arriveranno agli Stati membri in tranche legate agli obiettivi di riforma”, che comunque è necessario rimanere nel perimetro della rigidità di bilancio imposta dall’Unione Europea, e che se gli stati “non implementano gli obiettivi, perdono i soldi di una rata”. Viene a questo punto da domandarsi cosa ci sia di diverso tra questi vincoli e il contenuto del memorandum di intesa che si dovrebbe firmare accedendo al MES. Oppure che cosa ci sia di diverso con l’imposizione di riforme strutturali e politiche di privatizzazione e tagli (la famosa austerity) da parte della Troika durante la crisi del 2008.

Insomma, rispetto al modo con cui questo programma viene pubblicizzato, il Recovery Fund non presenta sostanziali cambiamenti rispetto al meccanismo già previsto per il MES o rispetto alle prassi già adottate in passato dall’Unione Europea. Inoltre, il decisore ultimo di questo programma sono i mercati finanziari, che sceglieranno se investire o meno le proprie risorse sulla base delle garanzie prestate dalle istituzioni politiche. Il capitale finanziario è e rimane il vero protagonista della direzione politica delle nostre società, e non a caso i partiti che lo rappresentano in Parlamento si sono esposti a favore di questo programma: primo fra tutti il PD, che da sempre è legato agli interessi del capitale finanziario, ma anche la Meloni di FdI, che invece si era opposta nei mesi scorsi – sicuramente per opportunismo politico-elettorale – al MES.

Come comunisti non possiamo che rigettare il Recovery Fund, che anzi ci conferma ancora una volta come l’Unione Europea faccia gli interessi del capitale finanziario e come essa sia costituita per funzionare unicamente su questi binari, senza possibilità di riforma dall’interno.

L’unico modo per far sì che il peso di queste politiche non ricada sulle masse popolari è rompere con l’Unione Europea e dare il nostro fondamentale contributo per la costruzione del socialismo e dell’internazionalismo trai popoli.

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