RISTORATORI, CRONACA DI UNA MORTE ANNUNCIATA

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RISTORATORI, CRONACA DI UNA MORTE ANNUNCIATA

Iniziamo subito con dire che quello che stiamo per andare ad affrontare è un tema complesso: parlarne in modo superficiale o tagliarlo in due con l’accetta non ne aiuta l’analisi. Al contrario, ciò farebbe il gioco di chi, trae direttamente vantaggio, nell’etichettare in modo diverso tra loro lavoratori che in realtà hanno tutti in comune il principio fondamentale del vivere del proprio lavoro. Tali divisioni, che sono all’ordine del giorno, contribuiscono a far smarrire nei lavoratori tutti, la consapevolezza dell’esistenza di una coscienza di classe, che è il vapore che spinge la locomotiva della lotta stessa.

Negli ultimi giorni, tra tutte le proteste di piazza, si sono registrate anche quelle dei cosiddetti ristoratori. Queste manifestazioni si può dire che hanno avuto molta visibilità da parte dei media mainstream, senz’altro di più rispetto ad altre forme di protesta che hanno visto come protagonisti lavoratori di altri settori, inclusi quelli che versavano già in condizioni critiche nel periodo immediatamente precedente all’arcinota pandemia da Covid-19.

Certo, è inusuale la presenza in piazza dei ristoratori, come dire: “fa notizia”. Fatto insolito dovuto soprattutto all’idea diffusa che negli ultimi anni riguardava le attività di somministrazione. Infatti, fino a pochi mesi fa, quello del cibo era considerato un business quasi infallibile, sinonimo di stabilità e rendita, oltre che considerata un’attività che tutti potevano condurre senza porsi troppe domande riguardo ai requisiti per intraprenderla. A fronte di un non trascurabile finanziamento per l’acquisto dei mezzi di produzione, che comunque non viene elargito proprio a chiunque, si poteva pensare di aprire una propria attività di ristorazione e, dopo aver assunto le maestranze necessarie, senza alcuna esperienza, cominciare fin da subito a far l’imprenditore. A riprova dell’aura di infallibilità e del rischio quasi zero, vi era anche l’idea che, piuttosto che fallire per sopraggiunto default economico, erano gli operatori stessi che decidevano di chiudere l’attività per sopraggiunto limite fisico; il troppo lavoro insomma trasformava le vite di questi novelli imprenditori in un esercizio di routine e dura fatica, tanto da dover mollare l’attività nonostante i lauti guadagni. Ma è proprio così o questa idee sono il solito bagno di retorica superomista che non vede tanto la competenza e l’esperienza come valore, ma piuttosto pone come unica condizione per il successo, spingersi oltre i limiti fisici? Retorica a parte, di vero ci sono i dati pre-covid di Unioncamere, datati 2019, che dicono che nel periodo 2011 – 2019, il numero di ristoranti e caffetterie è sì cresciuto del 27,4% (con oltre 30.000 attività in più), ma un dato riportato nel 2016 sempre da Unioncamere indicava che, a fronte di un aumento del 10% di nuove attività (periodo 2011-2016), il 75% vedeva abbassarsi la saracinesca per sempre entro i primi 5 anni di attività ed il 45% delle imprese di ristoro non sono andate oltre al terzo anno di vita. Dunque, uno dei principali motivi di questa instabilità è da ricercare in un eccesso d’offerta (nel 2019 si stima un locale ogni centocinquanta persone), che ha determinato sempre più frequenti passaggi di gestione e soprattutto di proprietà; tutti segnali di una situazione instabile che, non di secondaria importanza, dà adito a sospetti di attività illecite, quali riciclaggio di denaro o altri affari illegali.

Una tendenza che non si è mai fermata negli ultimi dieci anni: 16 locali sequestrati nel 2013 per un giro d’affari di 20 milioni di euro in una operazione contro la ‘ndrangheta, nel 2017 risultavano oltre 5000 le attività di ristorazione finite nelle grinfie della criminalità organizzata, mentre sempre a Roma nel 2018, sono state messe sotto sequestro 96 attività di somministrazione e ristorazione. Unioncamere, in un rapporto redatto nel 2013, indicava le attività di ristorazione e somministrazione come il 10% del totale delle società sequestrate a causa di infiltrazioni criminali. Parliamo dunque di un settore che già prima del covid non era proprio immune da pandemie finanziarie; numeri alla mano, dal 2018 i locali di ristorazione hanno avuto un saldo negativo con oltre 12400 chiusure (34 al giorno), dunque si poteva prevedere l’esplosione di una gigantesca bolla, già prima del terribile anno 2020. A voler fare un parallelo storico, possiamo prendere ad esempio la bolla speculativa dei tulipani, scoppiata nel XVII secolo nei Paesi Bassi. Un bulbo di tulipano arrivò a costare quanto una casa, di seguito la bolla scoppiò e tutto crollò. Nel caso dei ristoratori, si può dire che il crollo è stato causato dalla pandemia da covid-19, o più nello specifico dalle misure anticovid licenziate prima dal governo Conte e portate avanti in continuità anche dal governo Draghi. Misure che da oltre un anno colpiscono duramente il settore della ristorazione, con molte attività già chiuse per sempre nell’ultimo anno. Considerando però i numeri sopraindicati, le politiche anti-pandemiche finiscono per somigliare più ad una esplosione controllata di una economia diventata inagibile, che ad un crollo inaspettato causato dalla fatalità dell’evento pandemico.

È quindi d’obbligo fare una breve analisi della politica degli anni passati che, inesorabilmente, ha preparato il campo alla crisi che i ristoratori stanno vivendo in questi giorni e che indirettamente colpisce una grossa fetta di indotto che vi partecipa. Per esempio si registra un livello non trascurabile di calo del fatturato anche per le aziende di lavanderia che fornivano servizio alle attività di ristorazione. Le politiche di liberalizzazione delle licenze per attività di ristorazione attuate nel 2008, hanno giocato un ruolo determinante per favorire questo boom di attività ed insieme hanno causato anche la profonda trasformazione delle città turistiche generando un deleterio circolo vizioso. E’ noto come tante città già di interesse turistico siano state trasformate in vere e proprie “mangiatoie intensive”, a scapito di un tessuto produttivo artigianale (anche di rilevanza storica) e altre attività al servizio della domanda interna dei cittadini. Nel tempo i residenti hanno abbandonato i centri storici per le periferie, a causa della conseguente e scontata speculazione abitativa, cresciuta a dismisura negli ultimi anni in moltissime città turistiche e para-turistiche. Accade dunque che un normale cittadino, lavoratore (quando va bene), con un reddito stabile e una condizione di precarietà che è ormai la norma, se ha la sfortuna di avere i propri interessi e affetti in una città di interesse turistico, la sua domanda viene trattata come fosse un turista anche egli stesso: il prezzo lo fa il mercato ed è totalmente fuori dalla portata di un cittadino con un contratto precario a salario medio. Nota a margine: curioso come il mercato influenzi il prezzo in crescendo, quando c’è molta domanda, ma in condizioni opposte non accade mai che il prezzo diminuisce, per esempio in questo periodo in cui la domanda è più che dimezzata, ma questa è un’altra storia.

Altro fatto causato dall’abbandono dei residenti si registra nei servizi ai cittadini che si sono trasformati in servizi ai consumatori seguendo la regola sempreverde del profitto, a partire dal trasporto pubblico che in certe città è ormai diventato a gestione privata, con evidenti risultati di emarginazione delle zone non di interesse. La diaspora dei cittadini è eloquente con il dato di Firenze del 2020, si registrano solo poco più di 66.000 residenti nel centro storico (quindi un calo dell’1.75% a distanza di un anno) ed in assoluto 3700 residenti in meno nell’intero Comune. Se le politiche di liberalizzazione degli ultimi anni hanno fatto molto per favorire l’apertura dei ristoranti, non si può certo dire che ci siano state altrettante politiche di supporto per limitare la bolla e i danni sociali dovuti, sia alle conseguenze indirette e riflesse sulla cittadinanza, sia all’immane turnover delle attività, che molto spesso cela il sospetto di operazioni illecite. Forse, quello che le politica italiana avrebbe voluto ottenere con le selvagge liberalizzazioni delle attività di ristoro, è il passaggio del settore turistico da economia marginale ad economia trainante. Ciò confermerebbe l’allergia perenne che ha la politica italiana verso una idea di sviluppo economico legato all’industria manufatturiera e alla domanda interna, che al contrario dell’industria turistica, è in corso dismembramento da 30 anni a questa parte. I dati però, dicono che con il turismo non c’è crescita. Nonostante rappresenta(va) il 5% del PIL e conta(va) 1,4 milioni di occupati (stima 2019), il dato pubblicato dalla Banca d’Italia per il periodo tra il 1997 e il 2014 per misurare l’effetto della spesa dei turisti nelle province italiane sulla crescita del PIL è eloquente. Il risultato è significativo in termini statistici, ma modesto sull’economia. Infatti i ricercatori hanno stimato che un aumento del 10% della spesa turistica generi, in media, una maggiore crescita del Pil di circa 0,2 punti percentuali in un decennio. Un guadagno ridicolo in termini di sistema paese, che evidentemente si va a riflettere nelle tasche di pochi, genera posti di lavoro precari (quando va bene) e lavoro in nero nella maggior parte dei casi. Anche gli investimenti sono ridotti al minimo, 2mila euro all’anno per addetto contro gli 8mila euro all’anno per addetto nel settore manufatturiero [5]. Un giochino dunque che oltre a non favorire la redistribuzione della ricchezza (che come abbiamo visto è poca) è costato non di meno: la chiusura di molte attività di rilevanza storica, che in passato hanno contribuito alla caratterizzazione del territorio e l’abbandono dei residenti da molti capoluoghi di provincia che, alcuni dei quali, dopo il covid appaiono come tetri Luna Park abbandonati e decadenti.

Concettualmente, la protesta dei ristoratori si può dunque definire sacrosanta anche per i motivi sopraelencati: dove non arriva l’individuo deve arrivare la politica e in questo come in altri settori, la politica ha tenuto una condotta a dir poco scellerata negli ultimi anni. Certi indicatori lasciano intendere che una bolla era in atto e la pandemia da covid-19 è stata lo spillo perfetto per farla esplodere. I presupposti per questa tragedia sono venuti a crearsi come conseguenza delle suddette politiche; la crisi che ci troviamo di fronte nella sua dimensione, è tutt’altro che inaspettata. Nel considerala una fatalità slegata dalle azioni, dal tempo e dallo spazio, si fa un endorsement al partito unico liberale, lo stesso al governo ormai da 30 anni. Al contrario, un evento imprevisto come la pandemia da covid-19, ha esposto al mondo intero tutte le criticità del vetusto sistema capitalistico. Senza perdersi in inutili esercizi di rancore di classe, quello che sta accadendo ai ristoratori è un livello di un più complesso macro processo di polarizzazione del capitale che sta accadendo da prima del covid-19 e ha avuto una spinta immediatamente dopo la pandemia. Questo processo, teorizzato da Karl Marx, non può che stimolare in tutti noi un’attenzione analitica ed una serie di riflessioni politiche, a partire da i movimenti di piazza dei ristoratori che in questi giorni molti compagni hanno incrociato per la prima volta.

Una premessa è d’obbligo. Non ci riferiamo a tutti quei compagni che un punto di somministrazione hanno dovuto o voluto aprirlo e sono in possesso di partita iva. Il fenomeno è talmente diffuso che sarebbe folle considerare gli autonomi come lavoratori di serie B solo perché in possesso di partita iva. Ci sono compagni che hanno preso questa decisione consapevolmente, pensandola come unica via d’uscita dal vicolo cieco della precarietà o, non per secondaria importanza, per vocazione lavorativa. Non ci riferiamo a coloro che hanno una definita identità politica e si riflettono unitariamente come lavoratori nel Partito Comunista. Ci sono però, anche ristoratori che sono saliti alla ribalta nelle ultime ore perché arrivati allo scontro con la polizia, dando alla protesta un tono e uno stile molto lontano da quello che riconosciamo come utile alla lotta. Osservandoli, leggendo i loro comunicati, ascoltandoli dall’alto dei trespoli improvvisati a far comizio, salta subito all’attenzione come la maggior parte di questi manifestati tenda sempre a specificare l’appartenenza ad un rango diverso (forse più elevato secondo il loro punto di vista) da quello di lavoratore: appunto si dicono ristoratori. Leggendo i volantini appare lampante il vuoto politico, ascoltandoli si ha l’impressione che siano pieni solo del loro IO, quella che doveva essere una protesta serie e ordinata si è trasformata più volte in una specie di carro carnevalesco. Costoro, vogliono solo aprire. I ristoratori, purtroppo, sembrano dotati di una tenacia che non va più in là dei confini del loro business; la loro bottega è il punto centrale del mondo, le maestranze sono le loro maestranze; non perdono certo occasione per dire quanto siano importanti i propri dipendenti, ma curiosamente nelle varie manifestazioni questi dipendenti non hanno mai preso parola. Ahimè, finiscono dunque per rappresentare una massa di agitatori, reazionari, disorganizzati e politicamente molto confusi.

Nonostante tutto e in uno scenario di largo respiro, non possiamo certo rimanere indifferenti alle questioni dei ristoratori pur prendendo le distanze dalle modalità espresse nelle piazze. Se proviamo ad immedesimarci nella loro esperienza è facile intercettare i motivi dell’agitazione e definirne i connotati politici. La politica ha venduto loro una illusione a caro prezzo, i ristoratori dopo aver creato a propri rischi e proprie spese un’azienda più o meno solida, si sono visti tagliare l’ossigeno a causa di misure politico sanitaria senz’altro ineguali, che dovrebbero sì far fronte all’emergenza pandemica, ma senza mandare allo sbaraglio un intero tessuto socio-economico. Il principio su cui si basano le leggi anti-contagio che colpiscono le attività di ristoro, viene giustificato dagli assembramenti fuori controllo che si consumerebbero solo nei ristoranti. Anche se questo fosse vero, la rabbia di certo esplode se le stesse limitazioni non valgono per quei ristoranti gestiti da multinazionali come la francese Autogrill e simili, situati nelle piazzole autostradali. Inoltre, alle misure di contenimento che hanno penalizzato da subito i ristoratori, non hanno fatto seguito misure di adeguamenti del sistema sanitario nazionale, che è rimasto lo stesso da inizio a pandemia se non peggio, cosa singolare trattandosi di una emergenza sanitaria che perdura da oltre un anno; dunque appare che i mancati adeguamenti della sanità pubblica siano stati in qualche modo pagati da alcuni settori rispetto che altri. Non parliamo poi dei ristori, un tentativo goffo di elemosina sociale, quando arrivano. Così, azzoppati e privati dell’unico strumento di emancipazione rappresentato dalla loro bottega, i ristoratori finiscono sotto il tiro dei predatori capitalistici più grossi, i quali notoriamente si cibano di queste crisi. Il cacciatore aspetta, sa che la preda sarà pronta a tutto per riprendere una boccata d’aria, ossigeno che in questo momento viene a mancare. Inoltre, non avere una base politica solida e non riuscendo ad andare oltre se stessi, non aiuta molto la “resistenza” dei ristoratori che dunque in gran numero, saranno destinati a svendere l’attività o nel migliore dei casi cedere alla modalità del franchising: citofonare Benetton per ulteriori dettagli. Questo scenario vedrebbe il ristoratore passare alle dipendenze del capitale, quello che approfitta della crisi come opportunità per espandersi e assorbire un business che, in altro momento e con diverse condizioni, non avrebbe mai potuto acquisire a prezzo di svendita.

Chiediamoci dunque che differenza c’è tra gli sfruttati che si fanno chiamare ristoratori e quelli che si fanno chiamare lavoratori, solo perché da subito alle dipendenze formali del padrone. I ristoratori sono in una zona grigia, quelle dimensioni oniriche tanto care alla classe dominante; rischiano di essere la barricata prendendo in prestito una famosa frase di Lenin. Materialmente certo c’è differenza tra ristoratori e lavoratori e non per quella finestra temporale dove i primi hanno avuto possibilità di guadagno (potremmo discutere sulla qualità della vita che hanno vissuto in cambio di questo salario), ciò al contrario è stato deleterio, ha permesso loro di vivere nell’illusione del salto di classe. Basta vedere le piazze che capire che non sono certo questi guadagni che stanno permettendo ai ristoratori l’emancipazione politica di cui oggi avrebbero bisogno come il pane, anzi. Il lavoratore dipendente al contrario, proprio perché direttamente alle dipendenze altrui e anche per motivi storici, nonostante la crisi della coscienza di classe che stiamo vivendo, ha molte più possibilità di intraprendere un percorso di emancipazione politica, grazie anche al rapporto con i colleghi che parte come non competitivo, se non viene deviato dal padrone stesso.

Differentemente da come avviene tra ristoratori, dove vi è una competizione tra loro (anche se solo passiva) e che sì, in questo momento non sono alle dipendenze di un padrone in carne ed ossa, ma alla resa dei conti questo movimento fatto di uomini e donne carichi di motivazione, illusi di un radioso futuro medio borghese che non arriverà mai, sarà sfruttato per quanto è servito. Poi, esplode la bolla. La crisi abbassa le pretese e i ristoratori sono destinati ad essere rigurgitati dal capitalismo con la stessa velocità che il capitalismo ha utilizzato per inghiottirli in un primo momento. Su livelli diversi, possiamo parlare di sfruttamento, motivo per il quale il fenomeno non può passare inosservato, bollato come reazionario, di destra (e per larga parte è così non diremo certo il contrario) e non considerare l’obbiettivo e la necessità di dover organizzare questa massa disorganizzata e confusa.

Compito dei comunisti è unificare le lotte, da i settori strategici ai piccoli commercianti, non per ultimi i ristoratori, i lavoratori autonomi e quelli dipendenti. il cambio di sistema, per far sì che avvenga, necessita di una massa unita che punti a quella che è l’unica soluzione e prospettiva: il socialismo. Compito dei comunisti è intercettare il dissenso, dargli una forma politica ed una visione d’insieme sistemica e collettiva, che vada ben oltre all’uscio della bottega. Compito dei comunisti è rivelare le contraddizioni di una politica che da oltre 30 anni favorisce il capitalismo a colpi di liberalizzazioni, dando l’infame illusione che queste siano possibilità concrete di crescita sociale date alle classi popolari, che purtroppo, complice anche la perdita dei valori politici degli ultimi anni, si fanno intrigare dalla prospettiva del passaggio ad una classe sociale più elevata oltre che ad un miglior stile di vita che sembra inizialmente alla portata, ma che poi richiede in cambio l’annientamento di se stessi e spesso anche lo sfruttamento di altra forza lavoro. Non ci sono le premesse in questo momento che facciano pensare che una lotta disorganizzata dei ristoratori darà i frutti sperati, continuando così verranno spazzati via. Compito dei comunisti è compiere una analisi concreta della situazione concreta, osservare ed essere pronti al momento in cui, date le premesse, il processo di proletarizzazione di queste figure professionali sarà ultimato e, se non colpirà i ristoratori dell’oggi, senz’altro colpirà la stragrande maggioranza dei loro direttissimi eredi.

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