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COSA SI NASCONDE DIETRO LE SMART CITIES

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COSA SI NASCONDE DIETRO LE SMART CITIES

di Alessandro Bartoloni

 

Domenica 3 dicembre si terrà a Milano una manifestazione nazionale contro il controllo, il disciplinamento e la militarizzazione. Il capoluogo lombardo è capofila delle città che stanno sviluppando un sempre più esteso e profondo monitoraggio e verifica dei comportamenti di massa attraverso la raccolta, l’elaborazione e l’incrocio di dati personali captati attraverso dispositivi pubblici e privati. L’obiettivo propagandato è quello di assicurare una maggior qualità dell’ambiente, sia in termini di sicurezza che di vivibilità. Dietro questi nobili ideali, tuttavia, si cela un progetto di riorganizzazione degli spazi finalizzato ad un’estrazione di plusvalore dai tratti potenzialmente distopici. Per questo la questione è di importanza fondamentale anche per i comunisti. La funzione delle nuove tecnologie che stanno dietro alle varie identità digitali, ZTL e sale operative delle forze dell’ordine non è soltanto quella del controllo preventivo delle masse potenzialmente indisciplinate ma è anche quella di favorire la riorganizzazione della vita, individuale e collettiva, lavorativa e ricreativa. Una riorganizzazione resa possibile dai nuovi dispositivi e dai dati che ne fuoriescono e resa necessaria dalla crisi di accumulazione che, almeno nei paesi imperialisti occidentali, non accenna a placarsi. Ovviamente, è previsto che a pagare questa riorganizzazione siano le masse popolari. Si pensi, ad esempio, ai costi relativi all’acquisto di un’auto elettrica per poter continuare ad andare al lavoro. Oppure al crescente utilizzo dell’intelligenza artificiale a discapito dell’occupazione umana.

Ma questo non è un problema nuovo. Né è l’unico problema. Se così fosse, basterebbe attuare una qualunque politica redistributiva per stemperare le contraddizioni. Ad esempio, dotando le città interessate di mezzi di trasporto che siano realmente pubblici, gratuiti ed efficienti. Oppure fornendo ai lavoratori licenziati forme di assistenza. Purtroppo, però, in una fase di crisi come l’attuale, non vi sono risorse né rapporti di forza neanche per una politica di tal genere. La questione principale, tuttavia, non è quella inerente i costi che cittadini e lavoratori dovranno sopportare. Il problema sta tutto nelle potenzialità inerenti i dati a disposizione e i dispositivi che li intercettano.

Che la stragrande maggioranza delle persone che vive nei paesi occidentali (probabilmente anche in altri, ma non in tutti) sia produttrice di dati in formato digitale è evidente. Se non altro perché in moltissimi vivono attaccati a dispositivi che li captano, li trasmettono e li aiutano a generare. Questa produzione di dati, tuttavia, non avviene quasi mai mediante un lavoro sussunto al capitale. Quando il GPS montato sul telefono cellulare monitora gli spostamenti che effettuiamo durante il tempo libero, non lo fa per rendere il nostro lavoro più produttivo. Lo stesso dicasi quando inviamo una e-mail personale. Pertanto, questo tipo di produzione dei dati, quella che avviene quotidianamente e che ci coinvolge in quanto cittadini e non in quanto lavoratori dipendenti, non può contenere alcun plusvalore. Anzi, non trattandosi spesso neanche di un lavoro ma di attività spesso ludiche o comunque libere dal vincolo della subordinazione di fatto nei confronti di chicchessia, non può neanche avere un valore nel senso marxiano di oggettivazione di tempo di lavoro sociale.

Ciononostante, i dati che generiamo rappresentano qualcosa di utile (immediatamente o potenzialmente) che viene appropriato dalle grandi imprese tecnologiche. Un po’ come una cascata naturale può ottimamente servire per far girare un mulino. Questa appropriazione, tuttavia, non avviene soltanto mediante la rapina, bensì anche mediante lo scambio. Uno scambio che non è sempre di tipo capitalistico (anzi, quasi mai). Basti pensare al fatto che la maggior parte della fornitura dei dati (da parte dei cittadini più o meno consapevoli) avviene mediante servizi gratuiti (ad es. posta elettronica, social, ecc). In pratica, siamo in presenza di uno scambio in natura, una sorta di baratto: da una parte dati dall’altra servizi (con la differenza che i dati diventano di proprietà della controparte mentre i servizi no – ma ciò non rappresenta una novità quando ci sono di mezzo i servizi).

Ovviamente questo non significa che non avvengano vere e proprie rapine di dati. Le telecamere di sorveglianza ne sono forse l’esempio più lampante. Gli forniamo la nostra immagine, le nostre voci e la nostra posizione senza nulla in cambio, se non promesse: di maggior sicurezza, di qualità dell’ambiente, ecc. Né ciò significa che il produttore primario del dato non possa venderlo (si pensi alle spogliarelliste in diretta sul web). Tuttavia, in questo caso si tratta di uno scambio semplice M-D-M (merce, il corpo della donna, che si scambia con denaro che poi servirà a comprare i mezzi di sussistenza necessari alla spogliarellista) non di uno scambio capitalistico D-M-D’ (con D’ > D).

Se le cose stanno così, possiamo dire che gli esseri umani producono dati un po’ come la natura produce materie prime. Qualcosa di utile che è suscettibile di appropriazione e ulteriore lavorazione (se lo sviluppo delle forze produttive lo consente). Un’appropriazione che già di per sé costa lavoro all’impresa hi-tech (o chi per lei) e che quindi conferisce al dato che entra nella disponibilità dell’impresa un certo valore (e plusvalore). Ma, appunto, non perché a lavorare sia stato il produttore primario (la persona da cui il dato proviene) ma perché a lavorare è stata l’impresa capitalistica che se ne appropria. Un po’ come avviene all’albero della foresta vergine che è stato appena tagliato. Già il fatto di essere stato tagliato dalle radici che lo tengono unito alla foresta gli conferisce un valore – seppur minimo – che prima non aveva.

Questo non significa, ovviamente, che il produttore primario non possa essere un’impresa capitalistica. Le spogliarelliste di cui sopra possono dipendere da un “pappone” che produce e vende le loro immagini come merce valorizzante il capitale investito. C’è poi il caso in cui il produttore primario non sia un essere umano. Si pensi ad alcuni dati generati dai cosiddetti bot, i programmi che accedono alla rete attraverso lo stesso tipo di canali utilizzati dagli utenti (pagine web, chat, videogiochi) e ne simulano il comportamento (ad es. inserendo un like o facendo muovere un personaggio). È in questi casi che il dato primario generato contiene valore e plusvalore.

Ma torniamo all’appropriazione e alla lavorazione del dato. Queste attività costano lavoro e sono (nella stragrande maggioranza dei casi) organizzate capitalisticamente. Vale a dire finalizzate a produrre una merce avente un valore maggiore (plusvalore), in quanto frutto di un pluslavoro, cioè lavoro non pagato (sfruttamento del lavoro salariato di fatto, non necessariamente di diritto). Un plusvalore che per essere realizzato deve essere convertito in denaro. Dunque, anche in questo caso non siamo di fronte a niente di nuovo. Il ciclo è sempre quello D-M-D’ visto nella sua estensione (libro II del Capitale): D-M-P-M’-D’. Denaro (D) che viene investito nell’acquisto di merci avente funzione di mezzi di produzione (M), vale a dire oggetti di lavoro (alcuni dati), software e macchinari (dispositivi), forza-lavoro (ingegneri, operai, ecc), che vengono messi all’opera nel processo produttivo (P) finalizzato all’estrazione di altri dati e alla lavorazione di tutti i dati di interesse disponibili per ottenere merci valorizzate, vale a dire i dati elaborati (M’), da vendersi in cambio di denaro (D’).

Chiarito chi e come genera valore dai dati – fondamentale per capire che il soggetto sociale di riferimento non sono i semplici cittadini nel loro tempo libero ma continuano ad essere i lavoratori – rimane ora da capire a che cosa questi dati servano.

In prima battuta, l’impresa che li acquista li utilizza per fluidificare lo scambio M’-D’ (vendita delle merci) oppure lo scambio D-M (investimento). La profilazione di ogni singola persona in un quartiere, ad esempio, non aumenta la forza produttiva dei negozi o delle industrie di quel quartiere, ma fornisce a quelle imprese informazioni importanti per poter meglio tarare i loro investimenti o le loro vendite. Se attraverso i vari dispositivi vengo a sapere che in una determinata zona va forte il gelato al pistacchio, ciò mi serve per capire quanto gelato al pistacchio produrre in più, ma non muta il valore del gelato al pistacchio; può aumentare il costo di acquisto del pistacchio nella misura in cui i produttori ne aumentano il prezzo per la crescente domanda delle gelaterie, ma il valore, cioè il tempo di lavoro socialmente necessario alla produzione del pistacchio e del gelato, non muta. Insomma, anche in questo caso niente di nuovo. Si poteva scoprire la predilezione per il gelato al pistacchio anche girando per il quartiere con penna e taccuino. La differenza, da questo punto di vista, è che grazie all’enorme forza produttiva che il lavoro di profilazione ha acquistato mediante i nuovi dispositivi di controllo, verifica e sorveglianza, è possibile fare sondaggi h24 su praticamente ogni aspetto della vita che i cittadini scelgono di condividere (o sono costretti a condividere). Senza contare il fatto che mediante le nuove tecnologie è possibile far circolare talmente tanti dati da indurre nei loro produttori primari idee, atteggiamenti e comportamenti che altrimenti non avrebbero. Ma di questo parleremo alla fine.

Il fatto che l’attività di profilazione sia di competenza di aziende specializzate, per le quali dunque il dato dei cittadini costituisce un oggetto di lavoro che aumenta la forza produttiva del lavoro impiegato per trasformarlo in merce da vendere (ad es. alle gelaterie), non cambia nulla alla finalità socialmente improduttiva di quell’attività (ove la finalità sia fluidificare lo scambio e non la produzione). Stessa cosa per quanto riguarda l’utilizzo dei dati da parte delle forze dell’ordine e dei tribunali. Tali informazioni (molte delle quali rapinate e non acquistate né barattate) aumentano enormemente la loro forza “produttiva”, rendendoli potenzialmente capaci di prevedere i crimini (o almeno così dicono). Ciononostante, anche questo è un caso di utilizzo improduttivo di dati. Qui doppiamente improduttivo: non soltanto per la finalità sociale cui i dati sono destinati ma anche per l’organizzazione stessa che li fa propri e li lavora. Malgrado la ventennale propaganda berlusconiana, lo Stato rimane un’azienda solo nella forma organizzativa. Essenzialmente è qualcosa di diverso, dal momento che non investe denaro per ottenere profitto (D-M-D’) ma impiega reddito (vale a dire valore e plusvalore sottratti al loro scopo originario) per produrre valori d’uso o merci la cui vendita non serve alla valorizzazione del denaro impiegato per produrle. Insomma, in questo caso avviene uno scambio che assomiglia a quello D-M, dove lo Stato utilizza il denaro che ha ottenuto mediante la tassazione (del valore e del plusvalore) per acquistare o produrre beni e servizi presumibilmente utili alla collettività. Se non altro alla collettività dei capitalisti che, mediante il loro Stato, possono usufruire di beni e servizi che non riuscirebbero a produrre se dovessero farci profitto (ad es. strade) e possono trasferire alla collettività il pagamento di una quota del salario sociale di classe (istruzione, sanità, ecc).

In sintesi: l’utilizzo dei dati da parte delle aziende può aumentare non soltanto la capacità di convertire denaro in merce (D-M) o merce in denaro (M’-D’) ma può anche aumentare la forza produttiva del lavoro che sfruttano. Una forza produttiva che può essere impiegata anche per migliorare il processo produttivo nel suo complesso. Si pensi ai benefici (per il padrone) che i dati sugli spostamenti generati dai suoi dipendenti portano alla logistica (dentro un grande magazzino o nei trasporti su strada), oppure ai movimenti che gli operai devono (o non devono) effettuare in catena di montaggio. In questi casi, ad essere utilizzati non sono soltanto i dati prodotti dai cittadini nel loro tempo libero ma, soprattutto, i dati forniti dai lavoratori (alias cittadini nel loro tempo di lavoro). Anche qui, tuttavia, nulla di nuovo: i dati servono ad aumentare la forza produttiva del lavoro, al pari di ogni altra innovazione tecnologica. Dove sta dunque la novità?

La novità sta nel fatto che la riorganizzazione della vita effettuata mediante i dati e i relativi dispositivi necessita di un più stretto “controllo”, inteso non soltanto come capillare “verifica” e “monitoraggio” dei comportamenti ma anche come “comando” finalizzato alla manipolazione di quei comportamenti valutati come non conformi (sul lavoro e fuori). Una stretta quantitativa (più controllo) che si trasforma qualitativamente in un controllo di tipo nuovo. Con i dati e i dispositivi a disposizione, infatti, è possibile far sì che i comportamenti non siano più soltanto indotti dalla paura della repressione poliziesca, dal ricatto classista e dall’ideologia dominante ma letteralmente telecomandati.

Che ciò non sia più fantascienza pare oramai evidente. Due esempi: il chip sottocutaneo per i lavoratori, sdoganato perfino dal Parlamento europeo nell’ormai lontano 2018 e l’auricolare che monitora le onde cerebrali, presentato al World Economic Forum 2023. Dispositivi che al momento consentono “solamente” di monitorare i movimenti, le azioni e i pensieri dei lavoratori al fine di determinare con maggior esattezza la retribuzione e le penali in base a una migliore verifica del lavoro effettivamente svolto, dei danni causati, dei tempi morti (le cosiddette pause) ecc. Primo passo per eteroguidarli direttamente, come già oggi è possibile fare con i topi. D’altronde, passare dal guidare i dispositivi mediante il pensiero a guidare il pensiero mediante i dispositivi è inevitabile per chi vuole scongiurare in quei lavoratori volta per volta definiti “essenziali” quei movimenti e quelle azioni inutili al processo produttivo o dannosi al mantenimento della pace sociale. Così da garantire la salute e la sicurezza della collettività degli sfruttatori, incrementandone il benessere mediante la biologizzazione dello sfruttamento del lavoro salariato. Che poi ciò si ripercuota progressivamente anche nella vita di tutti i giorni e negli ambiti non lavorativi mi pare inevitabile. Se non li fermiamo prima.

 
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1 Comment

  1. Fulvio Baldini ha detto:

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