L’EGEMONIA CULTURALE E IL TOTALITARISMO LIBERALE

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L’EGEMONIA CULTURALE E IL TOTALITARISMO LIBERALE

 

L’EGEMONIA CULTURALE E IL TOTALITARISMO LIBERALE

di Alessandro Pascale

 

Il totalitarismo liberaleCon grande ritardo pubblichiamo la relazione scritta della lezione tenuta nell’ambito della Scuola popolare di formazione politica Antonio Gramsci a Milano il 18 marzo 2023 (vd video su Youtube). Si segnala che il testo scritto che si presenta, pur seguendo largamente la traccia degli appunti utilizzati per la presentazione, è stato ampiamente rimaneggiato e sistemato in vista del suo inserimento nell’opera Comunismo o barbarie. Un manuale per ribelli rivoluzionari, la prossima opera di Alessandro Pascale (con prefazione del Segretario generale del Partito Comunista Alberto Lombardo) di oltre 600 pagine – in uscita in questi giorni per la casa editrice L’AntiDiplomatico – che comprenderà anche (ma non solo) i materiali realizzati nell’ambito del I ciclo della scuola (gennaio-giugno 2023).Si riporta il testo tratto direttamente dall’edizione cartacea del libro. Il lettore più attento ci scuserà se i riferimenti bibliografici in nota a pié di pagina non sono completi in quanto riferentesi a citazioni complete inserite nelle sezioni precedenti del libro.

L’uscita di questo contributo appare ormai tanto più urgente, andando a colmare almeno parzialmente il vuoto lasciato dall’esaurimento delle copie in circolazione sul mercato de Il totalitarismo “liberale” (La Città del Sole, 2018; II ed. con prefazione Marco Rizzo 2021). Valuteremo un’eventuale ristampa.

 

L’EGEMONIA CULTURALE E IL TOTALITARISMO LIBERALE

Di Alessandro Pascale

 

Su questi temi si tratta di fare un riassunto dell’opera Totalitarismo liberale; le tecniche imperialiste per l’egemonia culturale.

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I. Genesi dell’Opera

Diamo per assodati i contenuti introduttivi di Gramsci e il suo concetto di egemonia culturale. Gramsci nei Quaderni scrive:

«Uno studio di come è organizzata di fatto la struttura ideologica di una classe dominante, questo servirebbe, cioè l’organizzazione materiale intesa a mantenere, a difendere e a sviluppare il “fronte” teorico o ideologico. La parte più ragguardevole e più dinamica di esso è la stampa in generale: case editrici (che hanno implicito ed esplicito un programma e si appoggiano a una determinata corrente), giornali politici, riviste di ogni genere, scientifiche, letterarie, filologiche, di divulgazione ecc., periodici vari fino ai bollettini parrocchiali. Sarebbe mastodontico un tale lavoro su scala nazionale».[1]

A partire da questo spunto è scaturito questo libro che ha un’origine particolare; il grosso viene da due capitoli molti diversi (il 23 e il 9) che componevano l’opera A cent’anni dalla Rivoluzione d’Ottobre. In Difesa del Socialismo Reale e del Marxismo-Leninismo (2017). Il capitolo 23 riguardava l’analisi della società contemporanea: era una ricostruzione storica delle principali tecniche borghesi e imperialiste con cui è stata mantenuta l’egemonia culturale nell’ultimo secolo, riuscendo a nascondere tutta una serie di cognizioni (storiche e non) alle nuove generazioni. Invece il capitolo 9 era dedicato a Stalin e alla lotta ideologica contro il comunismo.In questo libro ho cercato di indicare alcune direttrici di indagine per capire come riesca il grande capitale a mantenere un consenso per lo più tacito e silenzioso, eppure necessario e decisivo, alla conservazione del proprio predominio. Ho cercato di svelare il grosso delle tecniche egemoniche con cui hanno annebbiato e in una certa misura controllato le coscienze dei popoli, costruendo un sistema solo apparentemente libero e democratico. Il discorso riguarda soprattutto la realtà occidentale, dove i comunisti non sono mai riusciti a “sfondare” egemonicamente e politicamente, diventando, se non una specie in via di estinzione, certamente un gruppo irrilevante in molti paesi. La provocazione è stata definire la nostra società un totalitarismo, ossia un regime in cui il livello di egemonia borghese è tale da apparire ormai priva di consistenti ostacoli, non solo politici e sociali, ma perfino mentali. L’accusa fatta è che l’incubo immaginato da Orwell in 1984 non si sia manifestato nell’Unione Sovietica, bensì nell’odierno Occidente. Gli apologeti del sistema capitalista obietteranno che la categoria del “totalitarismo” non sia ammissibile per descrivere la nostra società. Che vi sia una diversità qualitativa rispetto ai totalitarismi novecenteschi è lampante: siamo liberi di svolgere iniziativa politica e di pubblicare libri sovversivi, laddove in altre epoche non esistevano né la libertà di stampa né di pensiero. Tali libertà di cui disponiamo sono senz’altro preziose, e permettono di distinguere il totalitarismo attuale da quello nazifascista, che si basava su un controllo rigidamente censore della cultura e dell’editoria.

Siamo ancora liberi di scegliere molte cose, ma secondo limiti pre-determinati che in fin dei conti non si differenziano notevolmente, rimanendo sempre all’interno di una serie di strutture borghesi. È per queste ragioni che tale regime rimane “liberale”: perché non impedisce del tutto la libertà di critica e di indagine verso il capitalismo, ma le lascia spazio solo entro limitati margini, specie quando tale critica vuole penetrare nelle masse e assumere caratteri politici collegandosi all’organizzazione rivoluzionaria di classe (il partito comunista). Cogliere come la nostra epoca sia già una forma di totalitarismo significa riuscire a comprendere l’essenza violenta della nostra società. Ciò non avviene per ragioni “naturali”, bensì per cause determinate ad arte e confacenti al dominio di una manciata di persone sulla maggior parte dell’umanità. Un dominio fondato sul terrore delle guerre, della disoccupazione, delle persecuzioni, delle migrazioni di massa, dell’alienazione, della repressione. Un terrore spesso auto-imposto, o meglio accettato volontariamente, quasi abbracciato gioiosamente. Un terrore figlio di un totalitarismo nuovo: morbido, accogliente, colorato, “liberale” per l’appunto.

Perché andare a rompere le certezze? Perché andare ad incrinare tale meraviglioso sogno capitalistico che tanto benessere ci ha apportato? Si potrebbe rispondere che la verità viene prima di tutto, ma c’è una ragione molto più pesante e gravida di conseguenze: il sistema non funziona più. Ciò comporta il rischio che il totalitarismo attuale torni ad essere assai meno “liberale” di quanto è stato finora. Diventa quindi necessario anzitutto far aprire gli occhi a molti, attuando una rigorosa critica.

Anche da sinistra, perfino dai marxisti più ortodossi, si obietta che non c’è bisogno di formulare un nuovo paradigma per descrivere ciò che nella nostra analitica c’è già: il concetto di “Stato borghese”, o meglio di “dittatura della borghesia”. Parlare di “totalitarismo liberale” non è solo una provocazione culturale ma una vera e propria denuncia politica. Tale categoria dimostra come sia possibile che in Italia e in Occidente sia stata annientata e liquidata come opzione politica di massa quella comunista e assieme ad essa una visione materialista e dialettica della storia. La coscienza di classe e la conoscenza delle cognizioni minime del marxismo-leninismo oggi in Italia sono quasi azzerate, e rimangono ben pochi “reduci” e “nuove reclute” consapevoli del carattere illusorio della democrazia liberale in cui viviamo. La maggioranza della popolazione, non solo italiana ma anche occidentale, non ha consapevolezza di vivere in un sistema totalitario. Non la si ha mai d’altronde, altrimenti non sarebbe un totalitarismo… Il sostanziale consenso sociale verso il sistema capitalista è quindi senz’altro maggioritario, al momento.

Il regime tirannico borghese prosegue quindi tutt’oggi. Mentre alcuni fingono di non vederlo, molti non ne hanno sinceramente cognizione, per il semplice fatto che non conoscono adeguatamente la storia e non riescono ad orientarsi nel presente. Ciò dipende certamente anche da “colpe” soggettive e individuali, ma origina soprattutto da fattori oggettivi e materiali ben precisi: il distacco progressivo delle organizzazioni comuniste occidentali, e dei relativi intellettuali organici, dal marxismo-leninismo, acceleratosi dopo il 1956. Ne sono conseguiti il declino del “marxismo occidentale” nelle società capitalistiche e la conseguente affermazione sempre più “totalitaria” del “pensiero unico” neoliberista a partire dagli anni ‘80 del ‘900.

L’accettazione dei paradigmi ideologici liberali e “neoliberisti” da parte del “Partito Socialista Europeo” ha palesato il secondo grande tradimento storico di tali “progressisti”, dopo i crediti di guerra del 1914, sancendo la spaccatura con il movimento internazionalista. Negli ultimi 50 anni la gran parte della socialdemocrazia europea si è posizionata nel campo imperialista, diventando sostanzialmente “la sinistra della NATO”; una scelta di campo pienamente borghese e padronale, caposaldo delle sovrastrutture attuali fondate con lo scopo di salvaguardare il “libero mercato” (l’UE), ossia gli interessi della borghesia e del grande capitale, tra cui le multinazionali. Tra capitale e Lavoro, la socialdemocrazia ha scelto senza indugio il primo.

La caduta dell’URSS e delle democrazie popolari dell’Europa orientale si è accompagnata in Occidente all’autodistruzione delle organizzazioni comuniste, in preda ovunque ad un revisionismo più o meno esasperato che in Italia ha condotto il PCI alla svolta della Bolognina, cioè alla formalizzazione della propria natura socialdemocratica. Il crollo dell’URSS ha davvero coinciso per un certo periodo con la «fine della Storia» (Fukuyama) nella mentalità delle classi popolari occidentali. La vittoria del capitalismo, ormai “naturalizzato” e proclamato eterno, è apparsa netta e straripante. Laddove non sono riusciti millenni di regimi tirannici e nemmeno i totalitarismi nazifascisti, è riuscito invece per un breve periodo il totalitarismo “liberale”, capace di obnubilare la mente di miliardi di lavoratori rimasti sul finire del secolo XX privi di un riferimento ideale alternativo. Naturalmente tale dominio, basato sulla sussunzione delle menti e sul loro controllo indiretto, riguarda soprattutto la società occidentale, la quale gode nel suo complesso dei maggiori frutti della globalizzazione economica capitalistica. Tali discorsi valgono molto meno per i popoli del cosiddetto “Terzo Mondo”, dove non a caso permangono, in forme diverse e variegate, società e regimi antimperialisti e anticapitalisti. Molto più forte è in tali paesi la consapevolezza di vivere in un sistema truccato, in cui a guidare le redini del gioco ci sono pochi grandi burattinai seduti su comode poltrone a Washington, New York, Londra, Parigi, Berlino, Roma, ecc.

La crisi economico-finanziaria del 2007-08 ha portato ad un primo brusco risveglio, ma quando in Italia è stato smantellato l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori (2012) – conquistato all’apice della forza operaia nel 1970 – non c’è stata opposizione popolare combattiva e di massa. Non c’è stato nemmeno uno sciopero generale, nella complicità delle burocrazie sindacali ormai pienamente conniventi con il regime padronale. La protesta, non più scientifica e sistematica, rimaneva astratta e lirico-poetica, non più organizzata in maniera adeguata e di massa. L’irrazionalismo tornava a farla da padrone, e nella confusione generale diventava possibile rilanciare la grande giostra che aveva caratterizzato la gran parte della storia umana: gli oppressi, non avendo che un solo paradigma ideologico e determinati valori in testa, nella smentita generalizzata delle possibilità di costruire una società diversa su basi scientifiche, si sono rassegnati all’esistente, oppure cercano di trovare delle varianti di gestione non riuscendo però a percepire le storture della società.

Così come le lotte contadine e proletarie nel medioevo si esprimevano a livello religioso attraverso l’adesione alle “eresie” teologiche, così oggi assistiamo al trionfo, nel variegato campo delle sinistre europee, di revisionismi, socialismi utopistici e subalternità capitalistiche di vario tipo. L’inadeguatezza di tali rivolte è tale da screditare alla radice il senso stesso della rivolta, dando luogo a quel fenomeno pericoloso del “pensiero unico”: di fallimento in fallimento, la gente si rassegna sempre di più. Pensiamo alla creazione e alle conseguenze emotive, di delusione e scoraggiamento, che ha lasciato in milioni di persone il caso del Movimento Cinque Stelle…

A inizio degli anni ‘10 c’è stata un’altra importante svolta: le importanti denunce fatte da Snowden e Assange. Edward Snowden ci ha mostrato come ogni giorno la National Security Agency, un pezzo indispensabile del deep state statunitense, controlli cinque miliardi di telefonate fatte dai cellulari di tutto il mondo. Praticamente tutto quello che si muove attraverso mail e comunicazioni digitali di vario tipo viene controllato dagli statunitensi; altro che Germania dell’Est e 1984… Assange con Wilkileaks ci ha rivelato i crimini guerrafondai e tante altre nefandezze delle élite occidentali nel mondo. Nella nostra epoca il peso dell’apparato industrial-tecnologico e dei mass-media è diventato straripante nel determinare l’esistenza individuale e nel costruire finte opposizioni politiche “antisistema”. Si è realizzato negli ultimi anni un controllo della popolazione senza precedenti. Questo il quadro tracciato nel 2019, prima della pandemia. Oggi, quattro anni dopo, a causa della pandemia e della guerra, molti parlano della nostra società come di un totalitarismo moderno. All’epoca non lo faceva praticamente nessuno. Approfondiamo la questione mostrando come molti elementi fossero già noti ai sovietici.

 

II. Le tecniche imperialiste dai bolscevichi a Gramsci

Ne L’ABC del comunismo, Bucharin e Preobraženskij (1919) mostrano piena consapevolezza delle questioni poi approfondite da Gramsci:

«La società capitalistica è, come abbiamo visto, basata sullo sfruttamento della classe operaia. Una piccola minoranza di uomini domina tutto; la maggioranza degli operai non possiede nulla. I capitalisti comandano; gli operai vengono sfruttati. […] Perché tollerano gli operai questo stato di cose? […] in generale vi sono due ragioni: in primo luogo, che l’organizzazione ed il potere si trovano nelle mani della classe capitalistica; in secondo luogo, che la borghesia signoreggia spesso la mente della classe operaia. […]. Contro la classe operaia lo Stato borghese dispone dei mezzi di coercizione brutale e di quelli dell’asservimento mentale; essi formano gli organi più importanti dello Stato capitalista. I mezzi di coercizione brutale sono soprattutto l’esercito, la polizia e gendarmeria, le carceri ed i tribunali, e i loro organi sussidiari: le spie, gli agenti provocatori, l’organizzazione di crumiri, di sicari ecc. […]. Lo Stato capitalistico mantiene, oltre l’esercito regolare, anche un esercito scelto di farabutti ed un corpo speciale addestrato alla lotta contro gli operai. […] Fra i mezzi di asservimento spirituale della classe operaia […] i tre più importanti: la scuola di Stato, la chiesa di Stato e la stampa di Stato o sovvenzionata dallo Stato. La borghesia capisce di non poter reprimere le masse operaie colla sola forza brutale. Essa vede che è necessario annebbiarne anche il cervello. Lo Stato borghese considera l’operaio come bestia da soma, che deve lavorare, ma deve essere messa anche nella impossibilità di mordere. Perciò non soltanto lo si sferza e si uccide quando esso morde, ma lo si addomestica come nei serragli. Perciò lo Stato capitalistico eleva specialisti per l’incretinimento e l’addomesticamento del proletariato: insegnanti borghesi e professori, preti e vescovi, pennaioli e giornalisti borghesi. […] Lo Stato borghese è perciò intento a fare dell’operaio un animale domestico, che lavora indefesso e paziente come un cavallo. Lo Stato capitalistico si assicura in questo modo il suo sviluppo. La macchina sfruttatrice funziona, e spreme continuamente plusvalore dalla classe operaia. E lo Stato sta di guardia a che gli schiavi del salariato non si ribellino».[2]

III. Razzismo e Nazionalismo

Razzismo e nazionalismo sono chiaramente i primi e più noti strumenti per l’egemonia culturale. Il razzismo, l’oppressione e la discriminazione contro le persone sulla base di caratteristiche a loro ascritte, è una delle manifestazioni più repellenti della società borghese, nata peraltro in contesto colonialista europeo all’alba dell’epoca moderna. Non è un relitto del passato e neanche un fenomeno naturale dell’essere umano, bensì un’ideologia di oppressione con una storia specifica e una funzione sociale particolare: il razzismo si è evoluto col risveglio del colonialismo e lo sviluppo del sistema economico capitalista. Inoltre non è solo un’oscenità morale ma un principio organizzativo essenziale della società capitalista. Il mantenimento della struttura dell’economia capitalista richiede che i lavoratori considerino gli altri lavoratori come concorrenti per il posto di lavoro, i diritti sociali, la scuola, ecc. È una nota trappola a favore del nazionalismo e del razzismo, i cui effetti Karl Marx già andava osservando nel diciannovesimo secolo:

«In tutti i centri industriali e commerciali dell’Inghilterra vi è adesso una classe operaia divisa in due campi ostili, proletari inglesi e proletari irlandesi. L’operaio comune inglese odia l’operaio irlandese come un concorrente che comprime il tenore di vita. Egli si sente di fronte a quest’ultimo come parte della nazione dominante e proprio per questo si trasforma in strumento dei suoi aristocratici e capitalisti contro l’Irlanda, consolidando in tal modo il loro dominio su se stesso. L’operaio inglese nutre pregiudizi religiosi, sociali e nazionali verso quello irlandese. Egli si comporta all’incirca come i bianchi poveri verso i negri negli Stati un tempo schiavisti dell’unione americana. L’irlandese lo ripaga con gli interessi della stessa moneta. Egli vede nell’operaio inglese il corresponsabile e lo strumento idiota del dominio inglese sull’Irlanda. Questo antagonismo viene alimentato artificialmente e accresciuto dalla stampa, dal pulpito, dai giornali umoristici, insomma con tutti i mezzi a disposizione delle classi dominanti. Questo antagonismo è il segreto dell’impotenza della classe operaia inglese, a dispetto della sua organizzazione. Esso è il segreto della conservazione del potere da parte della classe capitalistica. E quest’ultima lo sa benissimo. Il malanno non finisce qui. Esso si riproduce al di là dell’oceano. L’antagonismo tra inglesi e irlandesi è il fondamento nascosto del conflitto tra Stati Uniti e Inghilterra. Esso rende impossibile ogni seria e sincera collaborazione tra le classi operaie dei due Paesi. Esso permette ai governi dei due Paesi, ogni volta che lo ritengano opportuno, di togliere il mordente al conflitto sociale sia aizzandoli l’uno contro l’altro, sia, in caso di necessità, mediante la guerra tra i due Paesi».[3]

Domenico Losurdo ci ricorda il nesso storico tra razzismo e liberalismo: «sia sul piano della teoria che della pratica politico-sociale, il liberalismo è sorto come celebrazione non della libertà universale ma di una comunità dei liberi ben determinata. In questo senso le clausole d’esclusione (a danno dei popoli coloniali, dei servi della metropoli, ecc.) sono costitutive di questo movimento ideologico e politico».[4] Detto più semplicemente: i morti del “terzo mondo” valgono meno di quelli occidentali. Quando c’è un attentato terroristico in Europa si assiste ad un’enorme mobilitazione mediatica, mentre non si riserva la stessa attenzione per le stragi dei popoli asiatici e africani. Constatiamo che i morti bianchi, non solo europei ma “occidentali” in senso ampio, valgono per i media molto più dei morti del “Terzo Mondo”. Il messaggio indiretto è che un bambino bianco e caucasico valga molto più di migliaia di bambini “negri” e africani: alimentare tale razzismo a livello neanche troppo subliminale è una preziosa arma utilizzata dal capitale, che può così dividere meglio la classe degli oppressi per via etnica, diffondendo l’idea della necessità di una “missione civilizzatrice”, tesa a portare “democrazia e libertà” ad un “Terzo Mondo” barbaro e selvaggio.Correlata a questo capitolo c’era una piccola sezione dedicata al “biopotere” di Focault, che ha studiato i “micropoteri” utili a “disciplinare” l’individuo. L’accenno dato meriterebbe approfondimenti perché la questione si è rivelata molto attuale, nonostante l’arretratezza politica complessiva del filosofo francese, che sulla scia di altri autori pone sullo stesso piano hitlerismo e stalinismo: un grosso errore che ciononostante impone di recuperare quanto di razionale e utile permanga della sua vasta opera.

 

IV. Il controllo totalitario dell’informazione

Quando si parla di controllo mediatico della comunicazione si pensa a Joseph Goebbels, il ministro della propaganda nazista, fedele braccio destro di Hitler. Goebbels non è stato però il primo né l’ultimo a troneggiare in questo campo. Oggi il capitale si è fatto più furbo ed evita di palesare i propri imbrogli in maniera esplicita e chiara. Non esiste formalmente un “ministero della propaganda”, ma un sistema di controllo molto più raffinato, per l’appunto “liberale”, che consente la permanenza di pensieri critici, ma solo in un angolino ben nascosto. Di fatto la “libera” informazione è in mano ad un pugno di capitalisti. Il capitalismo e la democrazia liberale propugnano da sempre a parole l’ideale della libertà di stampa, della pluralità di fonti di informazione e della libertà di pensiero. Nella realtà dove prospera il capitalismo si verificano concentrazioni aziendali anche nel settore delle telecomunicazioni, quindi il vasto mondo delle televisioni, dei giornali, delle riviste, dell’editoria, ecc. Tali concentrazioni, nell’epoca della mercificazione totale e del tripudio dell’ideologia neoliberista, sono la chiave del potere di un pugno più o meno ampio di capitalisti. Alcuni esempi: nel 2016 è stato calcolato che il 90% del consumo “mediatico” medio (circa dieci ore al giorno) di un normale utente statunitense provenisse da aziende affiliate o controllate da sole sei grandi multinazionali (Comcast, The Walt Disney Company, News Corporation, Time Warner, Viacom e CBS Corporation) ognuna delle quali controlla altre aziende di varie dimensioni, in un enorme gioco di scatole cinesi.

Significativo l’esempio della News Corporation, un impero mediatico che rimane essenzialmente tale nonostante l’azienda sia stata di recente scorporata in alcuni tronconi per ragioni organizzative. Rupert Murdoch, che ne detiene la quota di maggioranza relativa, oltre ad essere uno degli uomini più ricchi e potenti del mondo (nel 2015 il suo patrimonio era stimato in 13,9 miliardi di dollari), controlla organi di informazione e/o intrattenimento in Australia, Regno Unito, USA, Isole Fiji, Papua, India, Paesi Bassi, Russia, Bulgaria, Romania, Serbia, Turchia, Georgia, Polonia, Indonesia, Germania, Italia, praticamente tutto il Sud America e non solo. Oltre a centinaia di piccole riviste locali, questo enorme conglomerato mediatico detiene il controllo delle più importanti aziende mondiali nel settore delle telecomunicazioni e dell’editoria, tra cui i quotidiani britannici The Sun e The Times; gli statunitensi The Post e Wall Street Journal; la televisione satellitare di Sky in Italia e nel Regno Unito; la Fox Television e la casa cinematografica 20th Century Fox negli Stati Uniti.

Questi dati sono di 5 anni fa e qualcosa può essersi modificato, ma la sostanza rimane la stessa. Si è calcolato che il gruppo editoriale di Murdoch raggiunga ogni giorno circa 4,7 miliardi di persone, i tre quarti della popolazione globale. In piccolo abbiamo i nostri oligopoli anche in Italia, dove il 95% dei giornali sono controllati da una decina scarsa di holding; non ci sono solo gli Agnelli con la loro “busiarda” insomma…

Abbiamo un oligopolio televisivo: nonostante con il digitale terrestre ci sia una proliferazione di canali, quelli principali sono sempre controllati da pochi. Infine sono sempre più forti i monopoli di internet su cui le élite e i governi investono risorse ingenti. Pensiamo al ruolo svolto da OPEN, giornale fondato e diretto da Enrico Mentana, il quale ha il compito di guardiano che deve giudicare quali notizie uscite sui social network di Meta (Facebook) siano vere o false. Alla fine degli anni ‘10 si poteva esprimere un certo ottimismo su internet; non era ancora uscito Il Capitalismo della Sorveglianza della Zuboff e, pur con una certa criticità, prevaleva l’idea che internet potesse essere uno strumento di emancipazione diffondendo libera informazione. Oggi questo ottimismo è svanito, perché nel giro di pochi anni è prevalso il capitalismo della sorveglianza. I provvedimenti politici sono stati incalzanti, al punto che se ne è dovuta occupare perfino l’Unione Europea.

Per citare l’opera di Burgio, Leoni e Sidoli: non ha prevalso il modello aperto, democratico e gratuito di Linux ma il modello chiuso, privatistico e oligarchico di Microsoft. Io stesso gestisco una pagina su Facebook, I Maestri del Socialismo, che nel giro di pochi anni aveva ottenuto oltre 20 mila follower, raggiungendo mediamente 250 mila persone alla settimana; dopo una serie di provvedimenti restrittivi e censure, adesso riesco a raggiungerne poche migliaia; hanno fatto in modo di tagliare tutte le possibili fonti di pericolo o quantomeno di metterle sotto controllo.

 

V. Le conseguenze culturali e il potere dei media

Paradossalmente oggi, nell’epoca dell’informatizzazione di massa e in mancanza di un centro politico aggregatore degli sforzi degli intellettuali critici verso il sistema capitalistico, si pone all’ordine del giorno non solo il rischio della perdita della memoria storica, ma anche della stessa trasmissione di documenti politici e di analisi degli intellettuali anticapitalisti privi di un’organizzazione stabile. Quanti siti internet, blog, pagine social media, hanno ospitato articoli, saggi, libri interi, professionalmente ben curati e meritevoli, che non hanno trovato diffusione cartacea per mancanza di fondi e capitali? Innumerevoli. Quanti di questi siti e pagine web hanno poi chiuso i battenti, cancellando per sempre la possibilità di recuperare tali contributi? Quanti sono ormai irraggiungibili a causa dei mutamenti avvenuti negli imponderabili algoritmi di google? Si rischia di tornare a un nuovo medioevo, e di tale problema non sembra esserci consapevolezza, schiavi come siamo del presente.

Qualcuno dirà che le persone non credono ciecamente e acriticamente a tutto ciò che viene espresso dai media. Tutti ascoltano, leggono e vedono i fatti riportati per poi sviluppare un proprio pensiero al riguardo, frutto dell’interazione con amici, familiari, colleghi di lavoro, o dell’approfondimento attraverso altre fonti. Non è qui possibile svolgere una disanima sul dibattito intellettuale, in particolare del secondo Novecento, sul potere effettivo dei media di influenzare i cittadini. Molti intellettuali hanno ovviamente cercato di ridimensionare questo potere. “Ma no, ma no, tranquilli! Sono esagerazioni dei soliti bolscevichi”… Una cosa non è stata smentita da nessuno: i media hanno il potere di imporci gli argomenti su cui noi riflettiamo, cioè l’agenda setting. I media non hanno magari il potere di convincerci delle loro ragioni, però, per fare un esempio, ti obbligano a parlare della guerra in Ucraina, mentre tutte le altre guerre scompaiono. Già questa è una maniera di influenzare pesantemente il dibattito. In un contesto imperialista il potere dei media reazionari diventa determinante per condizionare quotidianamente milioni (miliardi?) di persone, attraverso un’azione egemonica di lungo corso, invisibile ai più.

Ricordiamo alcune delle strategie della manipolazione mediatica, partendo da due brevi decaloghi. Il primo realizzato dal francese Sylvain Timsit nel 2002 e l’altro dallo stesso Goebbels, utilizzati ancora oggi. Ecco le strategie più interessanti segnalate da Timsit:

  1. La distrazione: deviare l’attenzione del pubblico dai problemi importanti e dai cambiamenti decisi dalle élite politiche ed economiche, attraverso la tecnica del diluvio: “inondare” il pubblico di distrazioni su informazioni insignificanti.
  2. Creare problemi e poi offrire le soluzioni. Questo metodo è anche chiamato “problema-reazione-soluzione”. Si crea un problema, una “situazione” prevista per causare una certa reazione da parte del pubblico, con lo scopo che sia questo il mandante delle misure che si desidera far accettare.
  3. La gradualità. Per far accettare una misura inaccettabile, basta applicarla gradualmente, a contagocce, per anni consecutivi. È in questo modo che condizioni socio-economiche radicalmente nuove (neoliberismo) furono imposte durante i decenni degli anni ‘80 e ‘90.
  4. Il differire. Sempre per far accettare una decisione impopolare la si presenta come “dolorosa e necessaria”, ottenendo l’accettazione pubblica, se non istantanea, almeno per un’applicazione futura. È più facile accettare un sacrificio futuro che un sacrificio immediato perché il pubblico, la massa, ha sempre la tendenza a sperare ingenuamente che “tutto andrà meglio domani” e che il sacrificio possa essere evitato. Il pubblico inizia ad abituarsi all’idea del cambiamento e ad accettarlo rassegnato quando arriva il momento.
  5. Rivolgersi al pubblico come ai bambini, di modo che tutti possano comprendere.
  6. Privilegiare l’emozione alla riflessione. Sfruttate l’emozione è una tecnica classica per provocare un corto circuito nell’analisi razionale e nel senso critico dell’individuo.
  7. Fomentare l’ignoranza e la mediocrità. Far sì che il pubblico sia incapace di comprendere: «La qualità dell’educazione data alle classi sociali inferiori deve essere la più povera e mediocre possibile, in modo che la distanza dell’ignoranza che pianifica tra le classi inferiori e le classi superiori sia e rimanga impossibile da colmare dalle classi inferiori».[5] Di qui la distruzione della scuola pubblica e gli incentivi alle scuole private, frequentate solo dai più benestanti.
  8. Essere compiacente con la mediocrità. Spingere il pubblico a ritenere che sia di moda essere stupidi, volgari e ignoranti; pensiamo al Grande Fratello e i tanti shows sempre più degenerati propinati in TV.
  9. Rafforzare l’auto-colpevolezza. L’individuo deve colpevolizzarsi e svalutarsi, magari cadere in stato depressivo; preso dal tentativo di risolvere i propri problemi personali, lo si rende inattivo politicamente impedendogli di ribellarsi contro il sistema economico.
  10. Conoscere gli individui meglio di quanto loro stessi si conoscono. Timsit diceva qui qualcosa su cui non si è mai riflettuto a sufficienza:

«negli ultimi 50 anni, i rapidi progressi della scienza hanno generato un divario crescente tra le conoscenze del pubblico e quelle possedute e utilizzate dalle élites dominanti. Grazie alla biologia, la neurobiologia, e la psicologia applicata, il “sistema” ha goduto di una conoscenza avanzata dell’essere umano, sia nella sua forma fisica sia psichica. Il sistema è riuscito a conoscere meglio l’individuo comune di quanto egli stesso si conosca».[6]

Altri princìpi di una propaganda imperial-nazista che si rifanno alle formule di Goebbels sono molto semplici:

  1. La semplificazione e il nemico unico. Adottare una sola idea, un unico simbolo.
  2. La trasposizione. Caricare sull’avversario i propri errori e difetti, rispondendo all’attacco con l’attacco. Se non puoi negare le cattive notizie, inventane di nuove per distrarre. Si pensi a quanto accaduto in Ucraina: tutte le nefandezze peggiori le fanno i nazisti ucraini e danno la colpa ai russi. È una strategia vecchia praticata dai nazisti ormai già un secolo fa.
  3. L’esagerazione. Trasformare qualunque aneddoto, pur insignificante, in minaccia grave.
  4. La volgarizzazione. Tutta la propaganda deve essere popolare, adattando il livello al meno intelligente. La capacità ricettiva, la comprensione media e la memoria delle masse sono limitate e scarse.
  5. L’orchestrazione. Limitarsi a un piccolo numero di idee e ripeterle instancabilmente. Senza dubbi o incertezze: «Una menzogna ripetuta all’infinito diventa la verità».
  6. Continuo rinnovamento. Emettere costantemente informazioni e argomenti nuovi a un tale ritmo che, quando l’avversario risponda, il pubblico sia già interessato ad altre cose. Le risposte dell’avversario non devono mai avere la possibilità di fermare il livello crescente delle accuse: pensiamo a come funzionano i talk show.
  7. La verosimiglianza. Costruire argomenti fittizi (ma verosimili) partendo da fonti diverse o informazioni frammentarie.
  8. Il silenziamento. Passare sotto silenzio le domande sulle quali non si hanno argomenti e dissimulare le notizie che favoriscono l’avversario. Più facile da fare con giornalisti compiacenti e quando hai il controllo dei media, ovviamente.
  9. La trasfusione. Partire da un “substrato” precedente: diffondere argomenti che possano mettere le radici in atteggiamenti primitivi e animaleschi: si pensi alla xenofobia (paura del diverso) usata sul tema degli immigrati.
  10. L’unanimità. Creare una falsa impressione di unanimità sulle proprie opinioni, facendole passare per affermazioni scientifiche condivise da tutti.

VI. I mass-media al servizio dell’imperialismo guerrafondaio

Il quinto capitolo del libro è dedicato ai mass-media al servizio dell’imperialismo guerrafondaio. Il tema è molto concreto. Lenin ci diceva come

«l’ignoranza delle masse popolari nel campo della politica estera è assai più diffusa che nel campo della politica interna. Il “segreto” delle relazioni diplomatiche è accuratamente osservato anche nei Paesi capitalistici più liberi, nelle repubbliche più democratiche. L’inganno delle masse popolari è magistralmente elaborato per quanto riguarda gli “affari” della politica estera e crea le peggiori difficoltà alla nostra rivoluzione. Milioni di copie di giornali borghesi diffondono dappertutto il veleno dell’inganno».[7]

Analizzando “la fabbrica del falso”, citando l’importante opera omonima di Vladimiro Giacchè[8], constatiamo come ogni intervento imperialista guerrafondaio sia stato preceduto da una accurata campagna di disinformazione portata avanti dal potere politico e media compiacenti. Michel Collon ha identificato quattro regole basilari della guerra di propaganda:

  1. Nascondere gli interessi. Non presentare mai la guerra come un conflitto tra opposti interessi sociali ed economici. Ci si batte sempre per i diritti umani, la pace o qualche altro nobile ideale.
  2. Demonizzare. Ogni guerra va preparata con una menzogna mediatica spettacolare, rafforzata da una continua demonizzazione dell’avversario, reiterando immagini di atrocità. Si pensi alle fialette di Colin Powell mostrate alle Nazioni Unite per giustificare l’invasione dell’Iraq del “cattivo” Saddam Hussein nel 2003.
  3. Tacitare la Storia! Nascondere la storia e la geografia della regione rende incomprensibili i conflitti locali, scatenati ed alimentati dalle grandi potenze stesse.
  4. Organizzare l’amnesia. Evitare di rammentare precedenti gravi manipolazione dei media, che renderebbero il pubblico troppo sospettoso.

A partire da queste casistiche si è dato spazio a elaborazioni già compiute su quello che avvenne nel 1989 in Romania, Cecoslovacchia e Cina. Nel 1989 Ceausescu è ancora al potere in Romania. Come rovesciarlo? I mass media occidentali diffondono in modo massiccio tra la popolazione romena le informazioni e le immagini di un “genocidio” consumato a Timisoara dalla polizia di Ceausescu. Cos’era avvenuto in realtà?

«Per la prima volta nella storia dell’umanità, dei cadaveri appena sepolti o allineati sui tavoli delle morgues [degli obitori] sono stati dissepolti in fretta e torturati per simulare davanti alle telecamere il genocidio che doveva legittimare il nuovo regime. Ciò che tutto il mondo vedeva in diretta come la verità vera sugli schermi televisivi, era l’assoluta non-verità; e, benché la falsificazione fosse a tratti evidente, essa era tuttavia autentificata come vera dal sistema mondiale dei media, perché fosse chiaro che il vero non era ormai che un momento del movimento necessario del falso. Così verità e falsità diventavano indiscernibili e lo spettacolo si legittimava unicamente mediante lo spettacolo. Timisoara è, in questo senso, l’Auschwitz della società dello spettacolo: e come è stato detto che, dopo Auschwitz, è impossibile scrivere e pensare come prima, così, dopo Timisoara, non sarà più possibile guardare uno schermo televisivo nello stesso modo». (Giorgio Agamben)
Analoghi falsi mediatici si trovano per le due guerre del golfo (Iraq 1991 e 2003) e la distruzione della Jugoslavia (1999), presentate in Occidente come indispensabili “guerre umanitarie”. Soffermiamoci ad esempio sulla devastazione della Libia del 2011: il 22 febbraio i media di tutto il mondo rilanciano con grande evidenza una foto sotto il titolo «FOSSE COMUNI IN LIBIA». Quello che la foto riprende è in realtà un normale cimitero in cui si stanno preparando alcune tombe singole, ma gli scatti che fanno il giro del mondo non consentono di capirlo. C’è di più: il giornalista Rai Amedeo Ricucci ha rivelato come le stesse foto fossero già state messe in rete mesi prima, raccontando un episodio interessante: il caporedattore di un’importante agenzia di stampa italiana, accortosi della bufala, ha fatto presente al suo direttore che si trattava di foto vecchie. La risposta del direttore è stata: «[questa notizia] gli altri la danno, non possiamo bucare».[9] Malafede? Anche. Sappiamo che la CIA ha sempre praticato l’infiltrazione di propri agenti o collaboratori in ogni redazione giornalistica. Non è importante (né possibile) controllare tutti, ma avere uomini giusti nei punti giusti. Un accenno a quanto accaduto in Ucraina: nel libro titolavo all’epoca 2013 – I nazisti al potere in Ucraina. Oggi si ricorda il 2014, ma in realtà il golpe è iniziato nel 2013. È stato accertato che le “squadracce” neonaziste che hanno imperversato a Kiev sono state addestrate nei campi NATO dell’Estonia almeno dal 2006. La già citata Victoria Nuland dichiarò pubblicamente già nel dicembre 2013 che gli USA avevano investito 5 miliardi di dollari nelle vicende ucraine. A chiudere i sospetti e a dare garanzie di verità è un’intercettazione rivelata da Wikileaks che conferma come il golpe fosse stato pianificato almeno dal 2010. In una telefonata Viktor Pynzenyk (ex ministro delle finanze, poi parlamentare membro del partito Oudar che fa capo al sindaco di Kiev Vitali Klitschko) spiegava all’ambasciatore americano la lunga serie di misure antisociali (privatizzazioni, riforme pensioni, aumento prezzi risorse energetiche, diminuzione Stato sociale, ecc.) che erano disponibili a concedere per l’ingresso nell’UE. Nel libro si chiudeva poi con la storia tragicomica dell’“osservatorio siriano per i diritti umani”: una sola persona che viveva in Inghilterra e che si era data tale nome, divulgando a tutte le agenzie stampa notizie sul conflitto siriano provenienti dai suoi fantomatici contatti sul campo: di fatto una narrazione anti-Assad e pro “ribelli moderati” incoraggiata dai servizi segreti inglesi. In conclusione ricordiamo il giudizio sulla questione dato nel 1950 da Pietro Secchia, storico dirigente del Partito Comunista italiano:
«Il giornalismo al servizio dei gruppi imperialisti è una forma corrente di prostituzione. Il capitalismo in putrefazione ha bisogno per reggersi di mentire continuamente. La realtà lo accusa: dunque deve essere falsificata. La fabbrica della menzogna è diventata arte, tecnica, norma di vita. […] Questa tecnica della menzogna ereditata dall’hitlerismo e dal fascismo è metodicamente applicata e monopolizzata dalla propaganda americana. La stampa è diventata, nei Paesi del Patto atlantico, un’industria di montaggio con produzione standardizzata. I temi ideologici arrivano dall’America assieme ai carri armati».[10]

Nel libro si citava anche una parte sul caso di Seymour Hersh, premio Pulitzer che ha denunciato il coinvolgimento americano nella distruzione del Nord Stream II e in passato ha contestato radicalmente la versione ufficiale della morte di Obama Bin Laden. Un caso raro di giornalista con la schiena dritta, e per questo ridicolizzato e bullizzato dal mainstream.

VII. L’elogio dell’ignoranza e la distruzione della cultura

«La gente, efficacemente manipolata ed organizzata, è libera: ignoranza, impotenza ed eteronomia introiettata costituiscono il prezzo della sua libertà». (Herbert Marcuse)

Su questo tema non ci dilunghiamo. Occorre però accennare all’aumento abnorme del fenomeno dell’analfabetismo disfunzionale: nelle società a capitalismo avanzato c’è una quota massiva di persone – nel nostro paese attorno al 60-70% – che non riesce a formulare e comprendere un significato e un contenuto critico da un articolo di giornale. Sanno leggere e scrivere ma non colgono tutte le questioni e le sfaccettature che emergono da un testo. È come se la scolarizzazione di base non si sia mai completata per questa gran parte della popolazione. Non è casuale. Nel libro si riporta la nota ipotesi formulata da Calamandrei su come distruggere la scuola pubblica: sottrarre pian piano fondi alla scuola pubblica e indirizzare sempre più fondi al settore privato per tendere verso il modello anglosassone, che caratterizza soprattutto gli Stati Uniti, dove c’è più gente che crede all’esistenza del diavolo rispetto alla validità del sistema darwiniano. Ci sarebbe da fare un’ampia critica alla scuola “moderna” che ciarla di didattica delle “competenze”, rivalutando gli aspetti positivi del modello precedente. La sostanza del discorso è che tutte le riforme degli ultimi trent’anni sono tese a peggiorare il livello cognitivo-neuronale dei ragazzi. Qualunque insegnante con un minimo di esperienza sa bene come anno dopo anno i manuali scolastici siano sempre più poveri e semplici, il che non aiuta a migliorare le cose.

VIII. Chi controlla il linguaggio controlla il pensiero

Saltando il breve capitolo dedicato alla battaglia filosofica, già trattato in altra sede, l’ottavo capitolo è dedicato al controllo del linguaggio. Emblematica a riguardo la conclusione dal primo film di Fantozzi:

Megadirettore: «Fantozzi, è solo questione di intendersi, di terminologie… Lei dice “padroni” e io “datori di lavoro”, lei dice “sfruttatori” e io dico “benestanti”, lei dice “morti di fame” e io “classe meno abbiente”. Ma per il resto la penso esattamente come lei […]. Io, come lei, sono un uomo illuminato, e sono convinto che a questo mondo ci sono molte ingiustizie da sanare. La penso esattamente come lei, e come il nostro caro dipendente Folagra».

Fantozzi: «Ma, scusi, Sire… Non mi vorrà dire che lei è… Scusi il termine, sa… “Comunista”?!?» [Trema l’intera stanza, come colpita da un sisma]

Megadirettore: «Beh… Proprio “comunista”, no… Vede, io sono un “medio progressista”».

In questa conclusione tratta dal film capolavoro Fantozzi (1975) del regista Luciano Salce e del fine intellettuale organico (all’epoca) e sceneggiatore Paolo Villaggio, c’è un concetto molto semplice: chi controlla il linguaggio controlla il pensiero. Don Milani ricordava che «l’operaio conosce 100 parole, il padrone 1000, per questo è lui il padrone». Servirebbe una riflessione collettiva sull’uso borghese di termini come “popolo”, “libertà”, “democrazia” e le accuse ai paesi socialisti: “totalitari”, “dittatoriali”, “dispotici”. Bertold Brecht in una delle sue opere più famose ha detto: «Le nostre / parole d’ordine sono confuse. Una parte delle nostre parole / le ha stravolte il nemico fino a renderle / irriconoscibili».[11] Orwell sintetizzava la questione dicendo «la guerra è pace»… le “guerre” occidentali in effetti sono sempre “missioni umanitarie”, “guerre di liberazione”, “esportazione della democrazia”. Dagli schermi della nostra televisione scompaiono parole scomode: “imperialismo”, “sfruttamento”, “colonialismo”, “neocolonialismo”, “delocalizzazione”, “monopolio”, “oligopolio”, “deindustrializzazione”, sono sostituiti da concetti molto più neutri (se non di valore positivo) come “cooperazione”, “politiche/piani di sviluppo”, “investimenti esteri”, “riqualificazione”, “riprogettazione industriale/finanziaria”, ecc. Ho Chi Minh sintetizzava la questione sostenendo che «per nascondere la bruttezza del suo regime di sfruttamento criminale, il capitalismo coloniale decora sempre la sua bandiera del male con l’idealistico motto: Fraternità, Uguaglianza, ecc.»[12]Pensiamo poi al linguaggio usato nell’ambito dell’economia finanziaria: un linguaggio specialistico fatto di spread, futures, bond, traded funds, credit crunch, volutamente incomprensibile per l’investitore medio.

C’è una grande differenza in questo campo tra il nostro paese, che tende sempre ad autodenigrarsi per coltivare gli “stranierismi”, e la Francia. Perché in Francia storicamente non mancano mai massicce mobilitazioni sociali contro le misure neoliberiste, mentre in Italia tutto è fermo? Un pezzo di risposta sta nel linguaggio. In Francia parlano del “patronat” (padronato), in Italia invece si dice “datori di lavoro” o “classe imprenditoriale”. Non sono sciocchezze: sono elementi che si radicano nella nostra psiche in profondità, come i filosofi (da Heidegger in poi) e gli psicologi sanno bene. In ambito politico si potrebbe ricordare lo slittamento semantico di termini come “radicale”, “moderato”, “riformista”, “sinistra”. Ciò che era sinistra 50 anni fa è molto diverso da ciò che viene inteso some sinistra oggi. Scompaiono termini come “liberismo”, “keynesismo”, “socialismo”, “comunismo” perché indicano le diverse possibilità che può assumere economia. Il capitalismo si presenta come un ordine naturale astorico, eterno. Viene a volte descritto come un cucciolo, trasformato in un membro di famiglia: si parla di “economie in salute”, “contagio”, “turbolenza”, e della necessità di “combattere la crisi”. Che fare quindi? L’indicazione politica che ci proviene da Luciano Gruppi è la seguente:

«Credo ci si debba sforzare di essere chiari sempre, facili il più che si può. Vi è un prezzo che non si può pagare: non trattare di un problema (economico, filosofico, scientifico) perché esso è difficile. Sarebbe un’offesa ai lettori, un venir meno alla lotta per l’egemonia del movimento operaio. Oppure trattarlo semplificandolo a tal punto da falsarne i termini. Parlare con chiarezza, e possibilmente in modo facile, non può tradursi in un impoverimento del linguaggio».[13]

Proprio perché chi conosce più parole ha più concetti e comprende meglio la complessità.[14]

IX. L’uso strumentale di Libertà, Democrazia, Diritti Umani

La borghesia è maestro dell’uso strumentale delle categorie di libertà, democrazia e diritti umani. Luciano Canfora nell’opera Democrazia, storia di un’ideologia[15], dimostra che lo sviluppo verso la democrazia è conseguenza primaria della forza delle organizzazioni socialiste e comuniste, sia su scala nazionale che globale. Il nesso tra democrazia e liberalismo non è sempre stato tale: è costruzione storica assai recente, diffusa solo dopo la seconda guerra mondiale, per necessità borghese, in chiave anticomunista e antisovietica. Ancora per tutto il XIX secolo infatti i liberali proclamano la libertà in antitesi alla democrazia intesa come suffragio universale e diritti per tutti. Il liberalismo veniva presentato come il “giusto mezzo” tra gli estremi della monarchia assoluta (tirannia) e il “regime giacobino ultra-egualitario e democratico”. Canfora dimostra che solo un regime elettorale proporzionale (a dispetto di quello maggioritario) sia però realmente democratico e tale diventa la rivendicazione storica dei comunisti nel ‘900. A parte l’eccezione dell’italica prima repubblica, con 45 anni circa di sistema proporzionale (grazie all’esistenza e alla forza del PCI), in tutti gli altri paesi capitalisti, perfino nelle democrazie liberali più avanzate, i sistemi proporzionali sono esistiti solo per brevi periodi.

Anche in questa maniera la borghesia è riuscita a mantenere il controllo politico in Occidente, facendo concessioni importanti durante la guerra fredda:

  • tassazione progressiva e patrimoniale, ferocemente osteggiata dai liberali più reazionari;
  • espansione del welfare state (pensioni, assicurazioni sociali, diritti sindacali, istruzione, sanità, trasporti), ottenuta sotto la pressione di una durissima lotta di classe;
  • controllo macroeconomico da parte degli enti pubblici (pianificazione, keynesismo e abbandono dell’ultra-liberismo) riformulando il concetto di liberalismo (1945-75); determinanti in tal senso lo stimolo fornito dal modello sociale sovietico e la crisi del modello liberista (1929) che avevano precipitato il mondo nella Seconda guerra mondiale.

La contraddizione tuttora a molti invisibile viene nel periodo della guerra fredda (1945-1991) dal fatto che le democrazie liberali, continuando ad essere paesi imperialisti, hanno favorito l’avvento di dittature in chiave anticomunista in ogni parte del mondo e mantenuto a casa propria il “fattore K”, impedendo ai comunisti di andare al governo. Difficile parlare di democrazia quando ad uno dei due concorrenti è preclusa la possibilità di vincere… Le prime crepe nel blocco comunista e la caduta tendenziale del saggio di profitto, sempre più evidente in Occidente dagli anni ‘70, sono assieme ad altri fattori le cause che ci conducono ai fatidici anni ‘80, in cui ritorna la coincidenza tra liberalismo e liberismo, con l’abbandono del paradigma della “democrazia sociale”; a livello istituzionale si privilegiano sempre più sistemi elettorali maggioritari con soglie di sbarramento elevate, addirittura si ripropone la democrazia indiretta e si parla di restrizione del suffragio: la costruzione dell’Unione Europea e “l’abolizione delle province” rientrano in questo quadro antidemocratico.

X. Le Rivoluzioni Colorate

È ormai conosciuto l’inganno delle guerre umanitarie. Meno noto, anche se più diffuso rispetto a qualche anno fa, è il tema delle rivoluzioni colorate fatte in nome della libertà. Già da una quindicina d’anni se ne parla. Qualche anno fa scrivevo, seguendo Losurdo, che le rivoluzioni colorate sono iniziate nei primi anni del nuovo secolo in paesi dell’area post-sovietica: Georgia, Armenia, Kirghizistan, l’Ucraina (2004 e poi 2013). La rivoluzione colorata è una tecnica di golpe che prevede di: controllare l’informazione e una serie di ONG operanti dentro e fuori il territorio; utilizzare situazioni di malcontento per scatenare e guidare rivolte apparentemente non-violente (per le quali è più facile simpatizzare); utilizzare squadre specializzate, facendo leva se necessario sugli estremismi nazionalistici o religiosi; non limitarsi ad ottenere riforme e concessioni ma perseguire senza esitare la presa del potere. Tale casistica, lungi dall’essere causale o segreta, è stata scientemente teorizzata negli anni ‘80 dall’intellettuale Gene Sharp, “il Clausewitz della guerra non-violenta”. Nel 1983 Sharp fonda l’Albert Einstein Institution (AEI) grazie al sostegno finanziario di una serie di istituti filo-governativi americani come NED, NDI, IRI, Freedom House e varie fondazioni riconducibili al miliardario George Soros. Il risultato più importante del lavoro di questa associazione è stato la pubblicazione dell’opera Dalla dittatura alla democrazia (1993), tradotta in decine di lingue tra cui l’uiguri, per andare contro i cinesi ovviamente. La strategia studiata da Sharp è diventata di fatto il modus operandi preferito dagli USA per destabilizzare un Paese e porlo nella propria orbita egemonica, attraverso un sistema che consente di rimanere nell’ombra senza dover far ricorso a rischiosi, sanguinosi e costosi conflitti militari, da intraprendere solo come ultima ratio. Tale casistica rientra nell’armamentario della cosiddetta “guerra psicologica” ma viene amplificata enormemente grazie al controllo mediatico pressoché totalitario e alla mancanza di un forte circuito di quella che una volta veniva definita “controinformazione”.

XI. Il Libertinismo come deviazione piccolo-borghese

La strumentalizzazione del tema dei diritti umani è un motivo cardine del sistema borghese. Di qui la necessità di porsi sempre la domanda primordiale: libertà per chi? Il grande studioso marxista David Harvey ha identificato il momento della scissione culturale tra libertà e giustizia sociale, una volta fuse nei movimenti dell’estrema sinistra, «nel movimento del ‘68»: «La retorica neoliberista, con la sua enfasi sulle libertà individuali, è in grado di separare il libertarismo, le politiche dell’identità, il multiculturalismo e il consumismo narcisistico dalle forze sociali che perseguono la giustizia sociale tramite la conquista del potere».[16] Il ‘68 quindi ha liberato un individualismo libertario che poi è confluito in Italia nel “berlusconismo”, in estrema sintesi. Da questo filone è degenerata poi la questione della libertà intesa come liberazione della sessualità, un tema che negli anni ‘50 era estremamente progressivo ma che oggi viene strumentalizzato più o meno consapevole da alcuni movimenti femministi, libertari e LGBTQI. Il tema della libera sessualità è assorto per molti ad unico criterio discriminante per stabilire la giustezza o meno di un regime. Senza voler definire tale questione un argomento reazionario o retrogrado, si vuole stigmatizzare l’atteggiamento unilaterale che porta ad adottare quest’ottica come unica via per la liberazione individuale. Si potrebbe ricordare in due righe quanto detto da Lenin sul tema del libero amore: «La rivoluzione esige concentrazione, tensione delle forze. Dalle masse e dagli individui. Essa non può tollerare stati orgiastici […]. Gli eccessi nella vita sessuale sono un segno di decadenza borghese».[17] Lenin ha la sensibilità di un secolo fa, ma il discorso mantiene la sua attualità ed è applicabile anche al tema di altre libertà deviate: alcol e droghe leggere, assunti in proporzioni libertine ed esagerate, sono diventati strumenti potenti di assuefazione e distrazione soprattutto per le fasce sociali più giovani. Se è evidente infatti che tali svaghi sollevino l’individuo dalle miserie e dalle insicurezze prodotte dal capitalismo, è altrettanto vero che distolgano sempre più dall’impegno nella costruzione di una seria organizzazione di lotta. L’uso eccessivo di alcol e droghe destabilizza l’individuo, soprattutto se giovane, compromettendone sul lungo termine le capacità psico-fisiche, tanto necessarie per mantenere la lucidità e il discernimento critico in un mondo totalitario dominato dall’inganno e dalla falsificazione.

Già Engels denunciava il fenomeno segnalando il peso assunto dall’acquavite nella classe operaia. Non è un caso che la diffusione di droghe pesanti sia stata utilizzata fin dagli anni ‘70 sia negli USA – per stroncare l’organizzazione delle Black Panthers – sia negli altri paesi: è il 1972 quando parte l’operazione segreta Blue Moon della CIA in Italia, con l’obiettivo di diffondere droghe, per la precisione sostanze stupefacenti a base di oppiacei tra i giovani delle principali città italiane, con particolare attenzione agli ambienti sociali vicini all’area della contestazione studentesca per sviluppare disgregazione sociale, e fiaccarne le velleità rivoluzionarie, esaltandone gli istinti individualisti ed anarcoidi, come già sperimentato con successo negli USA. L’operazione Blue Moon era condotta in Italia dai servizi statunitensi utilizzando uomini e strutture che facevano capo alle rappresentanze ufficiali di quel paese in Italia. E questi sono i nostri alleati. Figurati i nostri nemici.

XII. La Religione e il Terrorismo

Sulle religioni si è già detto molto. Si può ribadire alcuni rilevanti aspetti ideologici che tendenzialmente le rendono alleate del totalitarismo:

  • il rifiuto aprioristico della violenza, ossia l’esaltazione della non-violenza;
  • l’apriorismo della fede sulla ragione con il conseguente disprezzo o ridimensionamento della scienza;
  • l’esaltazione del buon senso e dell’ordine presente;
  • il corporativismo e l’interclassismo;
  • l’individualismo esistenzialista precedente ad ogni etica collettivista.

Questo a grandi linee, con le dovute precisazioni che andrebbero fatte. Particolarmente utile leggere un passo di Gramsci che collega il “buon senso medio” al tema della fede, aiutandoci a capire le difficoltà quotidiane nell’opera di “convincimento” politico:

«nelle masse in quanto tali la filosofia non può essere vissuta che come una fede. Si immagini del resto la posizione intellettuale di un uomo del popolo; egli si è formato delle opinioni, delle convinzioni, dei criteri di discriminazione e delle norme di condotta. Ogni sostenitore di un punto di vista contrastante al suo, in quanto è intellettualmente superiore, sa argomentare le sue ragioni meglio di lui, lo mette in sacco logicamente ecc.; dovrebbe perciò l’uomo del popolo mutare le sue convinzioni? Perché nell’immediata discussione non sa farsi valere? Ma allora gli potrebbe capitare di dover mutare una volta al giorno, cioè ogni volta che incontra un avversario ideologico intellettualmente superiore. Su quali elementi si fonda dunque la sua filosofia? E specialmente la sua filosofia nella forma che per lui ha maggiore importanza di norma di condotta? L’elemento più importante è indubbiamente di carattere non razionale, di fede. Ma in chi e che cosa? Specialmente nel gruppo sociale al quale appartiene in quanto la pensa diffusamente come lui: l’uomo del popolo pensa che in tanti non si può sbagliare, così in tronco, come l’avversario argomentatore vorrebbe far credere […] conclusione di una estrema labilità nelle convinzioni nuove delle masse popolari, specialmente se queste nuove convinzioni sono in contrasto con le convinzioni (anche nuove) ortodosse, socialmente conformiste secondo gli interessi generali delle classi dominanti. Si può vedere questo riflettendo alle fortune delle religioni e delle chiese […]. Se ne deducono determinate necessità per ogni movimento culturale che tenda a sostituire il senso comune e le vecchie concezioni del mondo in generale:1) di non stancarsi mai dal ripetere i propri argomenti (variandone letterariamente la forma): la ripetizione è il mezzo didattico più efficace per operare sulla mentalità popolare;

2) di lavorare incessantemente per elevare sempre più vasti strati popolari, cioè per dare personalità all’amorfo elemento di massa, ciò che significa lavorare a suscitare élite di intellettuali di un tipo nuovo che sorgano direttamente dalla massa pur rimanendo a contatto con essa per diventarne le “stecche” del busto. Questa seconda necessità, se soddisfatta, è quella che realmente modifica il “panorama ideologico” di un’epoca».[18]

XIII. L’Alienazione consumistica

L’alienazione è oggi uno strumento fondamentale dell’imperialismo: è senz’altro il più pervasivo ed egemonico, proponendo come scopo quotidiano della propria esistenza individuale l’accumulazione di merci, distogliendo così l’attenzione dalle profonde contraddizioni del sistema capitalistico a livello locale e mondiale. Ne consegue spesso una degradazione anche estetico-morale dell’agire umano, ben riassunta dall’aforisma attribuito a Majakóvskij secondo cui «un tempo i produttori di auto le costruivano per poter comperare dei quadri; oggi i pittori fanno dei quadri per potersi comprare delle auto».

La degradazione etica conduce ad un’insoddisfazione perenne, scaturita dalla creazione di sempre nuovi “bisogni indotti”. Approfondendo l’analisi critica si deve ricordare il ruolo della pubblicità come strumento di educazione al capitalismo.

Per il grande scrittore Eduardo Galeano la pubblicità non informa sul prodotto che vende, o raramente lo fa. La sua funzione principale consiste nel compensare frustrazioni e alimentare fantasie.

Herbert Marcuse ha scritto: «Le persone si riconoscono nelle loro merci; trovano la loro anima nella loro automobile, nel giradischi ad alta fedeltà, nella casa a due piani, nell’attrezzatura della cucina. Lo stesso meccanismo che lega l’individuo alla sua società è mutato, e il controllo sociale è radicato nei nuovi bisogni che esso ha prodotto».[19]

Il problema è che la logica della pubblicità è irrazionale socialmente. Consideriamo questo dato: nel 2015 la spesa pubblicitaria globale si è attestata circa sui 545 miliardi di dollari, diventando di fatto «la prima imposta diretta»[20]. Già negli anni ‘60 negli USA si spendeva circa il 4% del reddito nazionale in pubblicità: uno spreco di risorse che si sarebbe potuto utilizzare per favorire la piena occupazione.

La pubblicità mira a farti comprare sempre merci nuove. Come fare? Uno dei mezzi usati è quello dell’obsolescenza programmata, non un mito ma una realtà. La programmazione dell’obsolescenza si può realizzare in due modi: mettendo in commercio prodotti di scarsa qualità, per cui il guasto si manifesterà nei tempi voluti e molto facilmente, oppure con la frequente produzione di nuovi modelli dello stesso bene di consumo, sollecitando, tramite campagne di marketing, il desiderio da parte dei consumatori di impossessarsi del nuovo decantato modello. Alcuni esempi: nel 1924 il cartello mondiale dei produttori di lampadine, Phoebus, decide di ridurre la durata della vita dei bulbi a incandescenza da 2.500 a 1.000 ore. Perché? “È troppo! Poi non ci comprano le lampadine…” Negli anni ‘40 la Dupont inventa una fibra resistentissima, il nylon, materiale di base per collant che si dimostrano però essere troppo robusti, tanto da costringere il colosso chimico ad assegnare a un gruppo di ingegneri il compito di ridurne la resistenza e quindi la vita utile. Nella Germania dell’est socialista invece qualche decina d’anni più tardi i frigoriferi dovevano garantire per legge una durata di 25 anni. Lampade a lunga durata prodotte dalla Narva di Berlino o l’industrializzazione di modelli innovativi che promettono una vita utile perfino di 100.000 ore continuavano a non trovare spazio nel mercato occidentale. Non le voleva nessuno perché duravano troppo, cioè funzionavano troppo bene.

Infine il caso di Marcos, un giovane di Barcellona la cui stampante ha smesso di punto in bianco di funzionare, con la sola spiegazione di un generico messaggio (“rivolgersi all’assistenza”). Quando il ragazzo catalano si rivolge ai centri di assistenza la risposta che riceve è la medesima: “costa troppo ripararla, le conviene comprarne una nuova”. La maggior parte di noi davanti a una simile prospettiva si arrende all’evidenza e acquista una nuova stampante, ma Marcos vive la vicenda come una sfida personale. Inizia così a cercare su internet chi abbia vissuto esperienze simili e a frequentare forum specialistici sull’argomento. Alla fine scopre che la stampante ha un contatore di copie, teoricamente introdotto dal produttore per garantire la massima qualità di stampa fino all’ultima copia, che a quota 18.000 stampe blocca la macchina, rendendola di fatto inutilizzabile. La soluzione arriva da un ragazzo russo, che trasferisce a Marcos un software libero in grado di azzerare il contatore delle pagine. La stampante riprende a funzionare come se nulla fosse…

Ridurre la vita utile dei beni ha alimentato il mercato prima della crisi, ma in un mondo in cui le risorse naturali sono un indiscusso fattore limitante e la popolazione mondiale è destinata a raggiungere i 10 miliardi, pensare di uscire dalla crisi solo incrementando i consumi è miope, oltre che insostenibile. L’unica risposta possibile per eliminare questa assurdità dell’obsolescenza programmata è rimettere sotto controllo popolare e di enti pubblici la produzione industriale, facendo sì che l’economia sia al servizio dell’umanità e del pianeta, e non viceversa.

Infine nostra società andrebbe ripreso il tema (già marxiano) ripreso da Erich Fromm: Avere o Essere?[21] Questi i due modi fondamentali di determinazione dell’esistenza umana identificati dall’intellettuale tedesco:

  • Avere: modello tipico della società industrializzata, costruita sulla proprietà privata e sul profitto che porta all’identificazione dell’esistenza umana con la categoria dell’avere, del possesso. Io sono le cose che possiedo, se non possiedo nulla la mia esistenza viene negata. In tale condizione l’uomo possiede le cose ma è vera anche la situazione inversa e cioè le cose possiedono l’uomo. L’identità personale, l’equilibrio mentale si fonda sull’avere le cose;
  • Essere: ha come presupposto la libertà e l’autonomia che finalizza gli sforzi alla crescita e all’arricchimento della propria interiorità. L’uomo che si riconosce nel modello esistenziale dell’essere non è più alienato, è protagonista della propria vita e stabilisce rapporti di pace e solidarietà con gli altri.

Fromm ritiene necessario attuare una nuova società, fondata sull’essere, liberata dalla categoria dell’avere, che garantisca la partecipazione democratica di tutti gli uomini, sia a livello politico che nell’ambito del lavoro. Quindi lavorare meno, lavorare tutti: non solo uno slogan ma un principio essenziale di riorganizzazione psico-fisica. Tutto ciò perché la società capitalistica alimenta disagio psichico e stress emotivo. Aldous Huxley a metà ‘900 preconizzava:

«Ci sarà, in una delle prossime generazioni, un metodo farmacologico per far amare alle persone la loro condizione di servi e quindi produrre dittature, come dire, senza lacrime; una sorta di campo di concentramento indolore per intere società in cui le persone saranno private di fatto delle loro libertà, ma ne saranno piuttosto felici, in quanto verranno sviate dalla volontà di ribellarsi per mezzo della propaganda o del lavaggio del cervello, o del lavaggio del cervello potenziato con metodi farmacologici. E questa sembra essere la rivoluzione finale».[22]

Quella che sembrava un’esagerazione è diventata una denuncia concreta. Katrina Forrester, critico che scrive per il London Review of Books, ha riassunto in una battuta questa insidiosa strategia: di fronte all’oppressione e allo sfruttamento, «non iscriverti a un sindacato, prendi una pillola». Nella sua recensione (22 ottobre 2015) di The Happiness Industry: How the Government and Big Business Sold Us Wellbeing (L’industria della felicità: come il governo e big business ci hanno venduto il benessere) di William Davies, denuncia la consuetudine di definire un comportamento ribelle o atteggiamenti negativi come disturbi psicologici: «Se non sei felice, se desideri che le cose fossero diverse o se trovi difficile adattarti alle condizioni della vita moderna, corri il rischio che ti venga diagnosticata una malattia mentale».[23]Una domanda essenziale da porsi nella vita, possibilmente prima della scelta specialistica degli studi, è la seguente: voglio lavorare per comprare o per vivere? Molti direbbero che preferiscono vivere anzitutto. Lasciamo la parola allora alla testimonianza reale di Philip Kotler, guru commerciale di Marketing Management, una voce rappresentativa della cultura capitalistica:

«La gente ci chiede: “Perché ci state facendo questo? Perché non ci lasciate in pace?” Ma questo è il capitalismo, un sistema in cui abbiamo imparato a motivare le persone a volere le cose in modo che esse si metteranno a lavorare per acquistare queste cose. Se non ci sono altre cose che possono volere, esse non lavoreranno duro: vorranno 35 ore a settimana, 30 ore a settimana e così via… Sì, il marketing fa da guida ai nuovi bisogni».[24]

Nell’URSS le pubblicità funzionavano in maniera totalmente diversa. L’economia sovietica veniva pianificata dal governo centrale ed escludeva ogni forma di concorrenza. La pubblicità commerciale non risultava, pertanto, necessaria in questo tipo di economia: era semplicemente incompatibile con il sistema. In parallelo tuttavia iniziò a guadagnare sempre più forza la propaganda sociale e politica. I programmi televisivi non venivano mai interrotti da messaggi pubblicitari. La pubblicità poteva essere visualizzata solo tra un programma e l’altro, di solito sotto forma di corti video didattici, al posto dei tradizionali annunci di mezzo minuto che si trasmettono oggi. Ad esempio, nel video pubblicitario dell’automobile Zaporozhets, il presentatore commentava i vantaggi del veicolo, dopodiché intervistava il direttore di un negozio di auto che si lamentava del fatto che si producevano poche unità di quel modello e che per questo motivo si vedevano costretti a vendere quello precedente. «La promozione dei prodotti e dei servizi non era l’obiettivo principale degli annunci pubblicitari. La vita quotidiana era lontana dal lusso e dalla ricchezza. L’attività pubblicitaria aveva una funzione innanzitutto informativa ed educativa, di costruzione di modelli di comportamento. Un’altra funzione era quella di stabilire nuove pratiche culturali». Manifesti e cartelloni nei luoghi pubblici facevano parte della vita quotidiana delle persone. Molti ricordano, dai tempi della loro infanzia, cartelli come «Il pane è un bene del popolo, non sprecatelo» o «Nell’uscire, spegnete la luce»[25], che insegnavano alcune regole di comportamento e stabilivano un nuovo sistema di valori.

XIV. Il Calcio tra Alienazione e nuova “Religione”

Un’analisi articolata viene dedicata al calcio. La tesi principale è che il calcio sia una delle più imponenti forme di distrazioni di massa nella nostra società, non solo in Italia. Il calcio è l’ultima grande religione di massa della nostra epoca. Adorno e Horkheimer sono stati tra i primi ad affermare che perfino la sfera dell’amusement (divertimento) diventa «prolungamento del lavoro sotto il tardo capitalismo»; il regime riesce cioè a controllare anche il tempo libero. «La razionalità […] dell’apparato di produzione capitalistico […] organizza e controlla uomini e cose non solo nella sfera del lavoro, ma anche durante il tempo libero: dunque anche nello sport».[26] L’investimento in squadre di calcio da parte di Agnelli e Berlusconi non è casuale. Il dato storico viene presentato da Desmond Morris: «quando i dirigenti delle fabbriche inglesi del diciannovesimo secolo si videro costretti a diminuire l’orario di lavoro, sorse il problema di come occupare gli operai durante il tempo libero». Immaginiamo i discorsi dei padroni: “adesso cosa faranno il sabato? Vanno a complottare nelle loro riunioni per farci la guerra, la lotta di classe?” In quell’occasione sono nate le squadre di calcio e gli sport di massa. Non è una casualità. Lo ammettono fior di sociologi, pur rigettando le esagerazioni fatte dai “socialisti” dell’epoca. Se il calcio all’inizio è appannaggio di «giovani gentiluomini», il quadro cambia velocemente:

«Squadre di operai venivano incoraggiate a giocare per trascorrere i pomeriggi del sabato diventati liberi. Secondo il punto di vista socialista, una simile tendenza presentava un doppio vantaggio per i padroni: teneva gli operai maschi lontani dai guai durante le loro ore libere (e lontani dai pubs) e li manteneva in forma perfetta per il lavoro in fabbrica. Nel 1885 il successo […] fu tale che molti operai-calciatori diventarono calciatori professionisti […]. Vaste schiere di operai premevano per vedere i loro idoli ex operai, i nuovi professionisti, esibirsi sul campo di calcio. Era iniziata l’era dei tifosi del calcio. […] Gli operai soddisfatti lavoravano con più lena. Così i dirigenti di fabbrica diventarono manager di squadre di calcio e incoraggiarono il più possibile la nuova tendenza».[27]
Mussolini era consapevole che il tifoso vero crea una nuova identità in cui l’operaio può diventare l’amico fraterno del padrone: basta che tifi la sua stessa squadra. Il fascismo incoraggiò in tutti i modi il calcio e ne fece un suo simbolo. L’interesse del dittatore verso lo sport, fu chiaro:
«politico – e solo politico! – Mussolini vide, anche nello sport, e apprezzò il lato politico. Per essere più precisi: la sua funzione politico-sociale. All’interno lo sport indubbiamente era, ed è, nemico della lotta di classe, affratellatore e livellatore di gente proveniente dai più diversi ceti, tutta fusa da una passione comune e tesa verso la stessa meta. Inoltre costituisce, coi suoi spettacoli, il diversivo migliore per la gioventù, altrimenti convogliata verso attività di partiti politici».[28]

XV. L’arte e la cultura di massa al servizio del capitalismo

Una parte importante del libro è dedicata alla sintesi dell’opera di Frances Stonor Saunders, Gli intellettuali e la CIA. La strategia della guerra fredda culturale[29]. Un libro che ormai ha quasi 30 anni, 15 anni dalla traduzione italiana, e che ci mostra bene tutte le rivelazioni sulla “guerra psicologica” messa in atto dalla CIA dalla fine degli anni ‘40 ad oggi.

Intanto una definizione di “guerra psicologica”: «l’uso pianificato della propaganda e di altre attività, diverse dal combattimento, da parte di uno Stato, per comunicare idee e informazioni come mezzo per esercitare influenza su opinioni, atteggiamenti, emozioni e comportamenti di gruppi stranieri al fine di favorire il conseguimento di obiettivi nazionali».[30]

Per combattere Stalin e il comunismo il principale ideologo dell’élite americana è George Kennan, uno dei padri della CIA. Nel luglio 1947 pubblica un articolo, X, apparso sulla rivista Foreign Affairs, in cui enuncia le tesi che avrebbero dominato i primi anni della guerra fredda: «il massimo sviluppo delle tecniche di propaganda e di guerra politica», la formulazione del concetto di «menzogna necessaria»[31] come cardine della nuova diplomazia statunitense.

La guerra psicologica viene avviata formalmente da canali ufficiali: il 4 aprile 1951 una direttiva segreta firmata dal presidente Truman, istituisce il Psychological Strategy Board (PSB). Un preoccupato funzionario dello stesso PSB, Charles Burton Marshall, pronosticò «un movimento intellettuale di lunga durata» come risultato di queste iniziative, allo scopo non solo di contrastare il comunismo, ma anche di «spezzare, in tutto il mondo, gli schemi dottrinari di pensiero» che forniscono una base intellettuale a «dottrine ostili agli obiettivi americani». Le sue conclusioni erano chiarissime: «È quanto di più totalitario si possa pensare».[32] La CIA ha assoldato e mobilitato un sacco di intellettuali anticomunisti: Eliot, Malraux, Stravinskij, Bertrand Russell, Benedetto Croce, John Dewey, Maritain, Ignazio Silone, Altiero Spinelli (quello del Manifesto di Ventotene). Sono stati tutti collaboratori della CIA e lo sappiamo da decenni. La CIA ha speso centinaia di milioni di dollari (di 70 anni fa, non di oggi!) per finanziarne le attività e le organizzazioni, con soldi provenienti peraltro dal piano Marshall. Già dagli anni ‘50 vengono usate le fondazioni (apparentemente) non governative ma ideologicamente allineate (come oggi le ONG): Ford (fine anni ‘50) ha risorse per 3 miliardi dollari e lancia la rivista Perspectives, «indirizzata alla sinistra non comunista di Francia, Inghilterra, Italia, Germania».[33] L’idea è promuovere idee anti-leniniste e anti-sovietiche nei movimenti comunisti europei, utilizzando soprattutto le frange trockijste, già dotate di un impianto “antistalinista” facilmente sfruttabile. Rockefeller finanzierà il programma della CIA MK-ULTRA, un progetto di ricerca sul controllo mentale. La piena autonomia di tali fondazioni ha fatto parlare di una semi-privatizzazione della politica estera americana durante la guerra fredda.

«A metà degli anni Sessanta, l’Agenzia si vantava di poter fornire il corpo docente a qualsiasi università: il 50% dei suoi analisti avevano titoli di studio superiori, mentre il 30% erano persone che avevano un dottorato, tanto da far affermare a un funzionario del dipartimento di Stato: “Ci sono più intellettuali liberal per centimetro quadrato alla CIA che in qualsiasi altra istituzione del governo”».[34]

Con ovviamente una connotazione di “classe” ben precisa: si tratta dei figli e rampolli delle famiglie a capo delle più importanti multinazionali. Tra le maggiori imprese realizzate da questi giovini c’è l’istituzione di Radio Free Europe: 29 stazioni e 16 lingue in un progetto per il quale si prodiga a raccogliere fondi il giovane attore Ronald Reagan, che sarà ben ricompensato. I liberali dimenticano sempre questa contraddizione: la CIA indirettamente proponeva agli intellettuali di esaltare gli Stati Uniti come paladini di tale libertà, proprio mentre le sue ingerenze erano finalizzate a intaccarla e a impedire la critica della politica estera americana. Predicare libertà culturale e praticare la censura diventa la parola d’ordine negli ambienti CIA.

XVI. Il controllo sull’editoria e i roghi moderni dei libri sgraditi

«Il modo migliore per fare buona propaganda è non far mai apparire che si sta facendo propaganda». (Richard Crossman)[35]

In che modo gli USA sono riusciti a diffondere il proprio verbo sul mercato editoriale mondiale? È un punto centrale per comprendere come la demonizzazione del comunismo abbia potuto affermarsi in campo culturale.

Punto di partenza è la United States Information Agency (USIA), formalmente istituita il 1° agosto 1953, con scopi e funzioni di «presentare ai popoli degli altri Paesi le prove, tramite tecniche di comunicazione, che gli obiettivi e le politiche degli Stati Uniti favoriscono, e faranno avanzare, le loro legittime aspirazioni di libertà, progresso e pace».[36] Nel 1998 l’organizzazione ha 30 mila dipendenti sparsi su 300 centrali operative in tutto il mondo, con un budget approssimativo di 3 bilioni di dollari a disposizione, e si occupa in particolar modo dei libri, con un’idea di fondo: «i libri sono diversi da ogni altro mezzo di propaganda, prima di tutto perché un solo libro può far cambiare in modo significativo l’atteggiamento del lettore, in misura non paragonabile a quella che si può ottenere con qualsiasi altro mezzo singolo. Pubblicare libri è, pertanto, l’arma più importante (e ad ampio raggio) nella strategia di propaganda».[37] Così scrisse il capo del Covert Action Staff della CIA. Sotto gli auspici dell’USIA, dall’inizio degli anni ‘50 sono avviati diversi progetti editoriali che prevedono la traduzione e diffusione di libri a basso costo. Tramite il Book Translation Program l’agenzia supporta gli editori stranieri nella pubblicazione, traduzione e diffusione di opere che illustrano «importanti aspetti della vita e della cultura americana», o che contribuiscono «significativamente al chiarimento delle teorie e pratiche del comunismo». Fra l’inizio degli anni ‘50 e il 1961 le opere incluse nel Book Translation Program sono ben 6.215, per un totale di oltre 58 milioni di copie! In Italia hanno collaborato con l’USIA le seguenti case editrici: Neri Pozza, Mulino, Cappelli, Salani, La Nuova Italia, Guanda, Nistri-Lischi, Marietti, Taylor, Einaudi, Longanesi, Mondadori, Bompiani, Opere Nuove, Mundus, Saturnia. In 20 anni sono state pubblicate oltre 250 opere, tra cui libri come Imperialismo sovietico: la marcia della Russia verso il dominio del mondo di Ernest Carman, oppure Ho scelto la libertà di Viktor Kravchenko.

USIA sborsa i soldi per tutti? No. Operations and Policy Research, un ente che si occupa della verifica dei testi per conto dell’USIA, provvede a suddividerli in sei categorie: “Maximum Promotion”, “High level normal use”, “Low level normal use”, “Normal use”, “Conditional use” e “Not suitable”. Le opere dell’ultima categoria, ossia gli scarti non sostenuti, sono così descritte:

«Libri mal scritti, di basso livello e lavori che distorcono i fatti e riportano conclusioni non supportate non hanno spazio nel programma. Libri che sono fortemente critici verso gli obiettivi della politica estera degli Stati Uniti sarebbero un intralcio effettivo al programma. I libri che rientrano nella categoria sono quelli che invocano la distruzione delle istituzioni libere, promuovono o rafforzano la propaganda comunista, o sono osceni, di scarsa qualità e sensazionalisti».

Ecco infine cosa si trova scritto nel manuale di istruzione Launching books in foreign countries a disposizione di tutti gli agenti dell’USIA sparsi nel mondo:

«Tutti gli editori del mondo stampano i loro libri per raggruppamenti stagionali, o “liste”. Nella maggioranza dei Paesi ci sono le liste primaverili, da gennaio a giugno, e le liste autunnali, da luglio a dicembre. È dunque astuto selezionare i titoli da sottoporre agli editori locali in qualche modo secondo le stesse modalità […]. Gli editori che sono nella fase di sviluppo di una lista stagionale sono spesso alla ricerca di “giusto un libro in più” […]. [Nella vostra lista] includete almeno sei titoli che riprendano ciascuno dei seguenti esempi:

  1. Un romanzo americano meritevole.
  2. Un libro che confuti i principi dello Stalinismo.
  3. Un libro che illustri un importante aspetto della vita americana contemporanea.
  4. Una biografia di un noto americano.
  5. Un classico della letteratura degli Stati Uniti.
  6. Un libro dalla nostra storia, preferibilmente uno che faccia risaltare l’importanza propria della libertà individuale nel progresso dell’America».[38]

Siamo di fronte ad un’opera subdola di condizionamento, in cui l’importante è l’immagine pubblica, ciò che appare dell’America, non l’America in sé. Non stupisce che «perfino le guide turistiche potevano contenere le osservazioni di agenti della CIA […]. A volte, recensioni di libri sul New York Times o altri rinomati periodici erano scritte da autori sotto contratto con la CIA».[39]

A sedare gli intellettuali critici è servito invece il maccartismo: un esempio è il caso dello scrittore Howard Fast, il cui romanzo Spartacus (da cui il noto film di Kubrick) è stato sabotato dall’FBI, che ha fatto in modo che nessun editore di peso glielo pubblicasse. Alla fine il libro esce nel 1950, edito dallo stesso autore, Howard Fast, ma il problema delle produzioni indipendenti è che poi non riescono a entrare nei circuiti commerciali di massa attraverso le pratiche monopolistiche messe in campo dalle grandi aziende. È una censura silenziosa. Nella primavera 1953 l’USIA provvede ad “aggiornare” le proprie biblioteche sparse in 7 paesi e frequentate da 36 milioni di persone l’anno, provvedendo a rimuovere oltre 30 mila libri. Vengono eliminate opere di «qualsiasi persona dubbia, un comunista, un compagno di strada»[40], ecc. Molti libri rimossi erano già stati bruciati dai nazisti. Destinati al rogo, per la seconda volta, sono La montagna incantata di Thomas Mann, Opere scelte di Tom Paine, La teoria della relatività di Albert Einstein, gli scritti di Sigmund Freud, Perché sono diventata socialista di Helen Keller e I dieci giorni che sconvolsero il mondo di John Reed. Perfino il saggio di Thoreau sulla Disobbedienza civile viene bandito.

XVII. Dalla creazione dell’Astrattismo al controllo di Hollywood

All’inizio della guerra fredda la CIA sembra onnipotente: può perfino permettersi di determinare il successo di nuovi movimenti artistici, finanziati e sostenuti unicamente in ottica anticomunista, contro la politica culturale del realismo socialista. Detta brutalmente: senza la CIA, niente Jackson Pollock, Willem De Kooning, Mark Rothko.

La maggior parte dei pittori statunitensi che la CIA intendeva promuovere era paradossalmente più o meno apertamente comunista, spesso anti-americana e talvolta simpatizzante per l’Unione Sovietica. Alcuni di loro sarebbero impazziti di rabbia se avessero saputo che i servizi segreti volevano “foraggiarli” per usarli in chiave anticomunista. Fu proprio fra questi pittori che la CIA andò a pescare i suoi campioni, al fine di promuovere l’idea degli Stati Uniti come patria della libertà e dell’anarchia artistica. L’intellettuale marxista James Petras ne ha scritto sulla Monthly Review, sostenendo che molti intellettuali arruolati dalla CIA sapessero benissimo in realtà chi li pagasse…

Il centro fondamentale della propaganda statunitense è però Hollywood. Tra gli anni ‘30 e il 1947 c’è una quantità notevole di film “sociali”, “realisti” e di denuncia. Il maccartismo interviene facendo piazza pulita: i vari Charlie Chaplin sono costretti ad emigrare. La storia di Dalton Trumbo è diventata famosa grazie ad un bel film di pochi anni fa: cacciato da Hollywood per la sua appartenenza comunista, il grande sceneggiatore è stato costretto a lavorare in incognito (e sottopagato), sfornando grandi sceneggiature come quella di Vacanze romane, gli gli valgono due premi Oscar, assegnati però a due sconosciuti portavoce accreditati formalmente dell’opera.

Il clima di intimidazione ha impedito a centinaia di persone di lavorare, convincendo «la maggioranza degli operatori di Hollywood, produttori come Jack Warner, David Selznick, Samuel Goldwyn e Louis Mayer in testa», ad accettare una subdola “auto-disciplina”. La scrittrice di testi cinematografici Ayn Rand per dimostrare quanto bene avesse capito, compilò e pubblicò anche un manuale di autocensura per Hollywood, intitolato Guida dello schermo per Americani, che conteneva i seguenti principi: «Non insultare il Sistema della Libera Impresa», «Non deificare l’Uomo Comune», «Non glorificare il Collettivo», «Non glorificare il Fallimento», «Non insultare il Successo», «Non insultare gli Industriali».[41] La guida sarà incorporata dall’USIA nei suoi manuali interni.

Il cambio di rotta porta alla realizzazione di una valanga di film più o meno esplicitamente anticomunisti. La propaganda subliminale si dimostra però la migliore di tutte: i film sui “marziani” degli anni ‘50 ne sono un esempio: gli extraterrestri che arrivano sulla Terra atterrano sempre, guarda caso, negli Stati Uniti, lasciando intendere che questo sia il paese più significativo e importante del pianeta. Un analogo tipo di propaganda indiretta è presente in tutti i film americani di fantascienza e “spaziali”, ad esempio in 2001 Odissea nello spazio, Guerre Stellari e Alien.

Altra manipolazione riguarda le traduzioni dei film per l’estero: viene controllato il doppiaggio, diverso dall’originale, e sempre in senso favorevole alla realtà americana. Ad esempio in un film americano un personaggio dice di essere «in cassa integrazione da un anno»: peccato che non esista cassa integrazione negli Stati Uniti… Opere come Furore di Steinbeck vengono duramente osteggiate: il cinema è il luogo in cui vengono eliminati tutti gli stereotipi negativi, inserendo solo quanto rappresenta un’America sana.

Una recente ricerca ha confermato come l’apparato bellico degli Stati Uniti riscriva i successi di Hollywood quando questi non si adattino bene alla propaganda di guerra, oppure ne danneggino in modo irreparabile la reputazione. Sono oltre 800 film e 1000 show televisivi che vedono uno zampino “esterno”. Tra questi, a titolo di esempio, Ti presento i miei, con il simpatico De Niro agente della CIA in pensione. Perfino shows apparentemente innocenti come quello di Oprah non scappano da questo monitoraggio.

Altro esempio importante di propaganda indiretta anticomunista passa da una fetta importante del cinema “blockbuster”: i film sui supereroi sono funzionali a riaffermare l’unicità degli Stati Uniti e il loro ruolo di “poliziotti del mondo”, così come i film di James Bond sono serviti a ispirare fiducia e ammirazione nell’MI6. Il lettore liberale dirà che nessuno ci obbliga a guardare questi film.

In realtà le major hollywoodiane obbligano i gestori dei cinema che desiderano proiettare i film da queste prodotti, a trasmettere film delle major nella quota maggioritaria dell’80/85% della propria proiezione totale, pena il non trasmetterne affatto, relegando così le produzioni “indipendenti” in un angolino di nicchia.

Infine un paio di casi recenti: la battaglia di Stalingrado viene proposta in due film molto diversi tra loro, come Stalingrad (1993, di Joseph Vilsmaier) e Il nemico alle porte (2001, di Jean-Jacques Annaud): il primo racconta la battaglia dal punto di vista dei poveri soldati tedeschi (idealizzandoli non poco) con un taglio estremamente psicologico e astratto dalla storia più ampia del nazismo; il secondo giocato più sottilmente sull’idea che in fondo la vittoria sovietica sia stata merito solo di eroismi personali e collettivi, di contro alla tirannia e crudeltà del regime comunista e della sua dirigenza. Annaud si era già fatto conoscere per Sette anni in Tibet (1997) con quel ritratto evangelico del Tibet e del Dalai Lama, formulato con ampie omissioni storiche (ad esempio che il protagonista impersonato da Brad Pitt, lo scalatore austriaco Heinrich Harrar, fosse un nazista) e un viscerale anticomunismo teso a demonizzare la Repubblica Popolare Cinese.

XVIII. La via di fuga dall’industria culturale borghese

Nel libro c’è un’ampia presentazione, analisi e riflessione critica sul paradigma dell’industria culturale, soprattutto musicale, e sugli spazi possibili per un cinema anticapitalista. Guardando la storia del ‘900 con la consapevolezza odierna, non ci si può poi non chiedere se il rock’n’roll non sia stata altro che l’affermazione sovrastrutturale piena, in campo musicale, della politica liberale borghese modernizzatrice portata avanti dalla CIA. Sono aspetti basilari della lotta di classe culturale che non vanno sottovalutati, e su cui occorre organizzare un intervento, nella consapevolezza che permangano spazi di azione in questi circuiti, seppur limitati.

Oggi l’analisi sarebbe da aggiornare con i casi di “netflix” e “prime video”, seguiti da milioni di utenti, nell’ambito di un nuovo oligopolio che è intervenuto a mercificare un settore cultural-artistico che per molti anni milioni di persone hanno soddisfatto liberamente sfruttando l’ondata democratica della prima stagione di internet (indicativamente 1995-2015), quella all’insegna di “linux” e del peer to peer: un movimento pratico spontaneo caratterizzato dal libero scambio di dati da parte di milioni di persone attraverso piattaforme come Emule Adunanza. Praticamente il comunismo culturale…

Certamente non si può e non si deve trascurare il ruolo politico delle “sottoculture” non pienamente integrate nel sistema. Il fatto che la ribellione sia tale solo verso un aspetto sovrastrutturale e non strutturale non implica che si debba sottovalutare la portata di tale fenomeno. In un contesto social-imperialista è difficile che la protesta verso il sistema economico nasca dal nulla, specie nei momenti di benessere economico. Molto più probabile è il caso di una rivolta nata da questioni sovrastrutturali e spostatasi, grazie ad un adeguato intervento esterno, su questioni di struttura: «una trasgressione immaginaria è già una trasgressione reale: chi crede di essere un ribelle, anche se in realtà non ha fatto nulla di trasgressivo, è già meno restio ad una ribellione vera».[42]

Spesso l’anticonformismo socio-culturale apre la strada a quello politico-economico. Certo è forzato voler vedere a tutti i costi in ogni sottocultura una forma simbolica di resistenza al capitalismo, ma si deve riconoscere alla cultura e all’arte la capacità di rafforzare e veicolare il disagio sociale in canali di protesta politica.

Ma come si caratterizza ad esempio la “musica militante”? Ho messo a confronto le due tesi “estetiche” di Adorno e Eisler, da cui si evince che la musica e l’arte di protesta devono essere tali non solo per il messaggio (contenuto), ma anche per la modalità di costruzione (forma), altrimenti l’artista viene facilmente sussunto dagli ingranaggi del sistema.

Non bisogna aver timore di accettare le logiche dell’industria culturale, se fatto con prassi comunista. Marcuse detta una buona regola di vita: «Io sono consapevole, del tutto consapevole di far parte del sistema e cerco di cavarne il meglio possibile usando la libertà di cui dispongo per dare il mio contributo ad un miglioramento ed avanzamento dell’attuale situazione».[43]

Il capitolo, e con essa la prima parte del libro, si chiude con una disanima sui videogiochi, nuova frontiera della propaganda anticomunista. L’indottrinamento parte da piccoli.

XIX. La Questione Comunista

La seconda parte è fatta di tre componenti: L’offensiva ideologica contro il comunismo; Le condizioni necessarie per la ricostruzione (politica del Partito Comunista); Il socialismo in una prospettiva storica e il mondo odierno. La parte sull’offensiva ideologica contro il comunismo è stata pubblicata originariamente (nella Storia del Comunismo) con il titolo significativo L’Antistalinismo è Anticomunismo. Un titolo forte per lanciare un messaggio soprattutto ai comunisti. La modifica è stata poi dettata dalla necessità di mostrare come la questione dello “stalinismo” rientrasse in stretta connessione con l’offensiva ideologica contro il comunismo.

Di stalinismo parlava già Trockij negli anni ‘20 e ‘30, eppure se tale categoria analitica ha potuto diffondersi a livello accademico e popolare in maniera travolgente ciò è avvenuto per ragioni politiche. In ultima istanza è stata determinante la lotta di classe condotta con ogni mezzo anche in campo culturale dalla borghesia: nelle scuole, nelle università, nei Parlamenti, nelle associazioni, nei partiti, nei sindacati, sulle riviste e in tutto il resto del circuito mediatico. Si ricordi che per volontà dell’Unione Europea, dal 2009 si ricorda ogni 23 agosto (anniversario del Patto Molotov-Von Ribbentrop del 1939) la “Giornata europea di commemorazione delle vittime di tutti i regimi totalitari e autoritari”; il 19 settembre 2019 il Parlamento europeo ha perfino votato l’equiparazione del comunismo con il nazismo. La storia cambia quindi, ma non sempre ciò avviene ricostruendo fedelmente i fatti. Chi pensa che non valga più al giorno d’oggi l’osservazione per cui la storia sia scritta dai vincitori, non conosce evidentemente la disciplina e pecca notevolmente di ingenuità.

La seguente parte, essendo molto importante, merita lettura integrale. Chi non possa per ragioni economiche acquistare il libro potrà leggerla quasi completamente sul sito Storiauniversale.it, dove troverà trattati i seguenti argomenti: La lotta di classe culturale degli intellettuali borghesi; La falsificazione della storia sovietica denunciata alla duma; La storia è scritta dai vincitori; L’accusa di totalitarismo di Hannah Arendt e la sua confutazione; I limiti storico-politici di Hobsbawm; Ritratto di Robert Conquest; La truffa del “Libro nero del comunismo”; Il tradimento di George Orwell; La recensione-stroncatura di Togliatti di “1984”; Solzenicyn: un arcipelago di menzogne.

Riguardo alle condizioni necessarie per la ricostruzione, si tratta di recuperare i fondamenti teorici su cui ci si è fino ad ora dilungati, denunciando i limiti di comprensione del marxismo occidentale, la sussunzione padronale della “sinistra” e l’attualità del paradigma imperialista, laddove molti si fermano a parlare inadeguatamente di “neoliberismo”. Ma il problema non è solo il neoliberismo, tant’è che in caso estremo l’imperialismo può anche recuperare tendenze keynesiane e porre limiti ai capitali, se ritenuto imprescindibile per tutelare l’ordine complessivo. Sarebbe necessario approfondire i luoghi e le strutture attraverso le quali opera la borghesia internazionale: non solo il club Bilberberg e la “trojka” (FMI, Banca Mondiale, UE), anche organismi pubblici come il Council of Foreign Affairs, la commissione Trilaterale, il club di Roma, il comitato dei 300 e una serie di società più o meno segrete immerse nel variegato sottobosco della massoneria.

Il marxismo-leninismo e la difesa delle conquiste del socialismo reale costituiscono delle basi solide da cui ripartire, nella consapevolezza di dover sviluppare l’analisi e l’elaborazione all’epoca del totalitarismo “liberale” e del multipolarismo caratterizzato dall’ascesa della Cina comunista.

XXIV. Ci rivolgiamo alle teste pensanti

Rispondendo alla mia affermazione di dover ricostruire il Partito partendo dal coinvolgimento delle “teste pensanti” (preferibilmente ma non necessariamente proletarie), mi è stata rivolta la seguente domanda:

«Volevo riprendere dal suo concetto di catturare le teste pensanti; molte volte sono più che la soluzione il problema perché i nostri nemici di classe del PD, i radical chic, sono quelli che leggono e si informano di più, cresciuti in un contesto benestante e poi utilizzano e deformano le nostre parole d’ordine per parlare di diritti civili e al servizio del Capitale, esempio su tutti l’utilizzo strumentale dell’antifascismo, come fa la figurina di Elly Schlein. Secondo me il quadro comunista deve essere nelle realtà scomode dei posti di lavoro, e noi non ci siamo sempre. Ricordiamo l’esempio dei servizi segreti cubani che si infiltravano nella mafia cubana della Florida. Riprendendo il discorso della propaganda, riuscire a fare anche propaganda indiretta. Esempio delle fiere di Mosca e New York, dove gli americani come loro orgoglio industriale mostrarono l’industria leggera del consumo e del vivere comodo [in contrapposizione alla supposta perenne fatica subita dall’operaio sovietico senza vedere alzate le sue capacità di consumo]. Il socialismo reale questa cosa non l’aveva mai capita. Come mai?».

Ho risposto così: la mia tesi è che sia iniziato uno scollamento nella fiducia tra popolo e gruppi dirigenti in URSS a partire dalla fine degli anni Cinquanta. La destalinizzazione è stata uno shock. Fino a quel momento c’era quasi un’immedesimazione tra popolo e gruppo dirigente. Quando arriva un Chruščëv che ti dice che per trent’anni sei stato governato da un dittatore sanguinario è chiaro che viene a mancare un po’ la fiducia… Da quel momento non si è più cercato di formare politicamente il popolo e di combattere la burocratizzazione (cioè la proliferazione nel partito e nelle istituzioni di carrieristi non motivati ideologicamente e neanche formati) fenomeno da cui poi ha preso piede la sclerotizzazione del sistema e la stagnazione. È venuta nel tempo a mancare una visione adeguata anche delle questioni internazionali, rimanendo sul lungo termine indietro rispetto all’Occidente nell’industria leggera e nell’innovazione – ovviamente avvantaggiato dallo sfruttamento del “terzo mondo”.Un libro molto interessante di Marcello Foa, Il sistema invisibile, perché non siamo più padroni del nostro destino[44], dà ragione di molte delle tesi presentate nel Totalitarismo “liberale”, però Foa incolpa il KGB sovietico del “peccato originale” di aver costruito un condizionamento totalitario della popolazione. In realtà i primi ragionamenti sulle tecniche di controllo di massa i bolscevichi li hanno fatti apprendendo un’arte avviata dai capitalisti. Sono molti gli agenti del KGB che si sono fatti abbagliare dalle tecniche di propaganda indiretta degli americani, il che denota la loro scarsa formazione ideologica.

Riguardo alle “teste pensanti” il punto non è cercare di conquistare a tutti i costi i ceti medi riflessivi. Noi dobbiamo cercare la gente che ragiona, indifferentemente dalla classe di appartenenza: se sono lavoratori e operai tanto meglio – sono coloro che soffrono per primi le contraddizioni sulla loro pelle – ma non è obbligatorio. Contano i valori, gli obiettivi, l’adesione ad un programma comune. Questo richiede un tipo di lavoro inedito sulla questione sindacale, e più in generale dell’associazionismo, cioè come organizzare l’intervento politico nei luoghi di lavoro.

Un’altra cosa giusta: come spiega il sociologo Jacques Ellul in Propaganda, i “radical chic” sono quelli che leggono in maniera superficiale e non hanno nozione approfondita delle questioni; spesso hanno un titolo di studio elevato, hanno una conoscenza nozionistica ma non profondità critica; pensano di sapere di più, in realtà sono quelli che sanno di meno, perché credono di informarsi correttamente attraverso il circuito mediatico borghese, e proprio per questo sono i più disinformati; sono quelli che non hanno neanche il dubbio di non sapere; pensano di sapere tutto e non sanno niente, o sanno quello che gli si vuole far credere; sono quelli che ti danno del complottista, non sapendo neanche che la categoria di “complottismo” è un’invenzione dell’FBI degli anni ‘60. In generale non dobbiamo cercare i radical chic. Dobbiamo provare con tutti quelli che sono disponibili ad ascoltarci, ma più in generale dobbiamo partire anche da quelli che in una qualche maniera sentono già una contestazione verso l’ordine esistente, anche se è una contestazione fittizia ed immaginaria.

Il mio grande amore giovanile è stata la musica e la mia tesi di laurea specialistica l’ho svolta sul rapporto tra canzoni di protesta e l’industria culturale, partendo da una domanda semplice: “Ma perché la gente ascolta così tanta musica di merda?” Oggi abbiamo i Maneskin, l’ennesima invenzione del sistema. Sono partito chiedendomi come mai certi autori di grande importanza non siano conosciuti a vantaggio di questi pupazzi. Sono arrivato pian piano al leninismo. Ho tratto la conclusione che certi aspetti sovrastrutturali e anticonformisti possano aprire la strada, come è avvenuto in passato negli anni ‘60 e ‘70, all’anticonformismo politico ed economico. All’epoca chiaramente c’erano delle organizzazioni che riuscivano a intercettare un anticonformismo artistico-estetico collegandolo alla contestazione verso l’ordine esistente.

È una via, ma non assolutamente l’unica, che si può battere.

 

[1]       Quaderno III [XX] voce 49 – Argomenti di cultura. Materiale ideologico, all’interno di A. Gramsci, Quaderni dal Carcere, vol. I, cit., p. 332.[2]       N. Bucharin & Y. Preobrazenskij, L’A.B.C. del Comunismo, Marxists.org, 1919, cap. XV – Lo Stato Capitalista.

[3]       K. Marx, Lettera a Sigfrid Meyer e August Vogt, Londra, 9 aprile 1870, all’interno di K. Marx & F. Engels, Opere, vol. XLIII – Carteggio 1868–1870, Editori Riuniti, Roma 1975, pp. 720-721.

[4]       Redazione Arianna Editrice, Controstoria del liberalismo (intervista a Domenico Losurdo), Ariannaeditrice.it, 29 ottobre 2006.

[5]       Da un documento denominato Armi silenziose per guerre tranquille, datato maggio 1979, trovato il 7 luglio 1986 in una fotocopiatrice della IBM acquistata ad un’asta di attrezzature militari. Pubblicato in appendice al libro W. Cooper, Behold a Pale Horse, Light Technology Publishing, 1991. Citato da Timsit.

[6]       S. Timsit, Stratégies de manipulation, Sity.net-Yanfry.wordpress.com, 2002.

[7]       V. Lenin, La politica estera della Rivoluzione russa, 14 (27) giugno 1917, all’interno di V. Lenin, Opere complete, vol. XXV, cit., p. 77.

[8]       V. Giacché, La fabbrica del falso. Strategie della menzogna nella politica contemporanea, Derive Approdi, Roma 2011.

[9]       Citato in V. Giacchè, La fabbrica del falso e la guerra in Libia, Lernesto.it-Resistenze.org, 14 maggio 2015.

[10]     P. Secchia, I crociati della menzogna, Rinascita, n. 8-9, 1950.

[11]     B. Brecht, A chi esita, 1937.

[12]     Ho Chi Minh, Uguaglianza!, L’Humanité, 1 giugno 1922, all’interno di Ho Chi Minh, Scritti, lettere, discorsi. 1920-1967, Feltrinelli, Milano 1968, p. 20.

[13]     L. Gruppi, Parlar chiaro, parlar facile, L’Unità, 10 ottobre 1979.

[14]     Nel dibattito seguente alla relazione mi è stata posta tale domanda: «visto che molte persone ragionano di pancia, non sarebbe meglio usare volgarizzazioni e semplificazioni per comunicare alle persone? Non c’è desiderio di sfruttare una volgarizzazione strumentale?». Mia risposta: Ci sono compagni che fanno questo lavoro, anche gruppi satirici, i quali cercano di fare comunicazione frizzante, però è chiaro che non è una cosa semplice. Il nostro problema non è parlare troppo difficile, ma raggiungere le persone [dal lato tecnico-organizzativo]. Il discorso dell’estrema semplificazione fa parte della seconda fase. Ora bisogna catturare le teste pensanti, coloro che capiscono quello che stiamo facendo, il primo che passa, come entra se ne esce. Le teste pensanti devono avere la consapevolezza che ci vorranno anni per vedere i risultati. Chi vorrebbe vedere risultati dall’oggi al domani alla prima delusione esce. Noi dobbiamo prepararci per una guerra di logoramento e di posizione, costruire qualcosa di solido, non i castelli di sabbia crollati miseramente negli ultimi trent’anni. Non è semplice anche perché serve un grande contatto con le nuove generazioni che al momento è insufficiente.

[15]     L. Canfora, Democrazia. Storia di un’ideologia, Laterza, Roma-Bari 2008 [1° ediz. 2004].

[16]     D. Harvey, Breve Storia del Neoliberismo, Il Saggiatore, Milano 2005, pp. 53-55.

[17]     C. Zetkin, Lenin e il movimento femminile, Marxists.org, 1925.

[18]     Quaderno 11 [XVIII], voce 12 – Appunti per una introduzione e un avviamento allo studio della filosofia e della storia della cultura., all’interno di A. Gramsci, Quaderni del Carcere, vol. II, cit., pp. 1390-1392.

[19]     H. Marcuse, L’uomo a una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata, Einaudi, Torino, 1967, p. 23.

[20]     Y. Frémion, La pubblicità è più efficace delle bombe: i crimini pubblicitari nella guerra moderna, all’interno di A.V., Il libro nero del capitalismo, Marco Tropea Editore, Milano 1999, pp. 524, 534.

[21]     E. Fromm, Avere o essere?, 1976, all’interno di E. Fromm, I Classici del pensiero, Mondadori, Milano 2010.

[22]     Citata in Wikiquote, Aldous Huxley, che riporta come fonte una conferenza tenuta nel 1961 alla UCSF School of Medicine di San Francisco, citata in D. Livingstone, Transhumanism: The History of a Dangerous Idea, Sabilillah Publications, 2015, p. 179.

[23]     Z. Zigedy, Le patologie del capitalismo, Mltoday.com-Resistenze.org, 26 novembre 2015.

[24]     F. Magdoff, Il problema è il capitalismo, cit.

[25]     Per queste e la precedente D. Romendik, La pubblicità in stile sovietico, Rbth.com, 22 ottobre 2014.

[26]     G. Vinnai, Il calcio come ideologia. Sport e alienazione nel mondo capitalista, Guaraldi, Bologna 1971, p. 45.

[27]     Fin qui D. Morris, La tribù del calcio, Mondadori, Milano 1982, pp. 24-26.

[28]     Citato in G. Amedeo, La passione astratta. La sostituzione dell’arte con lo sport nella società di massa neo-capitalistica, Laboratorio Edizioni, Napoli 1980, p. 16.

[29]     F. Stonor Saunders, Gli intellettuali e la CIA. La strategia della guerra fredda culturale, Fazi Editori, Roma 2004 [1° ed. orig. 1999].

[30]     Ivi, p. 10.

[31]     Ivi, p. 39.

[32]     Ivi, pp. 135-136.

[33]     Ivi, pp. 126-129.

[34]     Ivi, pp. 212-213.

[35]     Ivi, p. 7.

[36]     A. Marinello, L’editoria e la United States Information Agency. La fabbrica del libro. Bollettino di storia dell’editoria in Italia-Fondazionemondadori.it, a. XVII, n° 1, 2011.

[37]     F. Stonor Saunders, Gli intellettuali e la CIA, cit., p. 220.

[38]     Fin qui A. Marinello, L’editoria e la United States Information Agency, cit.

[39]     F. Stonor Saunders, Gli intellettuali e la CIA, cit., p. 222.

[40]     Ivi, pp. 174-175.

[41]     LinkPop, Regole per realizzare un perfetto film capitalista, Linkiesta.it, 28 maggio 2016.

[42]     G. Borgna, Il tempo della musica, Laterza, Bari 1983, p. 39.

[43]     Citato in E. Dinacci, Realtà della Germania, Edizioni Scientifiche Italiane (ESI), Napoli 1970, p. 107.

[44]     M. Foa, Il sistema invisibile, perché non siamo più padroni del nostro destino, Guerini e Associati, Milano 2022.

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1 Comment

  1. Fulvio Baldini ha detto:

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