È evidente che l’epidemia/pandemia di Sars-Cov2 ha praticamente bloccato un mondo il cui funzionamento è basato sull’interdipendenza (commerciale, industriale, energetica, finanziaria) della stragrande maggioranza degli Stati.

Ad un primo sguardo, l’osservazione che si potrebbe fare suonerebbe come “è chiaro, questa interdipendenza è il frutto della globalizzazione di stampo liberista”. Tuttavia, se si ragiona attentamente, si arriva con facilità alla conclusione che questa affermazione è inesatta. Il vero frutto della globalizzazione liberista è il modo in cui i governi e i grandi monopoli transnazionali hanno affrontato la crisi sanitaria, riuscendo peraltro a mettere in atto una strategia di estrazione di plusvalore dalle proprie economie ad un ritmo, finora, sconosciuto. L’interdipendenza (e il suo sviluppo), invece, è un fenomeno quasi naturale che ha preso a diffondersi sin da quando, sulla Terra, sono comparse le prime società umane stabili e organizzate che, cominciando a produrre i beni loro necessari per il sostentamento, hanno anche preso a commerciarli. Se si pensa a questo fenomeno in questi termini, si arriverà facilmente alla conclusione che anche in Unione Sovietica esisteva il fenomeno dell’interdipendenza produttiva e scientifica tra gli stati membri. E questo fenomeno si estese con l’istituzione del Comecon. Ai giorni nostri, tra le esperienze socialiste del sud-America (Cuba, Venezuela, Bolivia), esiste un certo grado di interdipendenza basato sulle specializzazioni produttive e scientifiche e sul commercio, senza che questo le ponga sul sentiero della globalizzazione capitalistica. Ciò che definisce le caratteristiche politiche del fenomeno è, semplicemente, la natura dei rapporti di produzione sulla base dei quali si fonda l’interdipendenza.

Tornando alla nostra realtà, l’interdipendenza globale che caratterizza l’evoluzione della globalizzazione liberista si è fondata sulla strategia della ricerca e costruzione di “catene globali del valore” grazie alle quali abbattere i costi di produzione e massimizzare i profitti. Le catene globali del valore (global value chains) sono il processo organizzativo del lavoro – figlio della globalizzazione e della riduzione “fisica” e  “virtuale” delle distanze geografiche – in base al quale le singole fasi della filiera di produzione vengono parcellizzate e svolte da fornitori e reti di imprese sparse in diversi Paesi in base alla convenienza economica e al grado di competenza e specializzazione delle diverse aziende coinvolte. Dalla concezione del prodotto alla vendita diretta al consumatore, tutte le fasi intermedie si possono coinvolgere in un network di imprese dislocate in diversi paesi.

Materialmente, queste due condizioni sono state soddisfatte attraverso le delocalizzazioni e le de-regolamentazioni. Con le delocalizzazioni, ha preso forma il fenomeno della de-industrializzazione delle economie avanzate (principalmente i paesi del G7) che hanno trasferito gran parte delle produzioni ad alto contenuto di lavoro – ovvero quei settori produttivi che richiedono un input di manodopera più elevato per svolgere attività di produzione rispetto alla quantità di capitale richiesta – verso paesi emergenti caratterizzati da un basso costo dell’unità oraria di lavoro. Parallelamente, gli stessi paesi hanno mantenuto in “patria” gran parte delle produzioni ad alta intensità di capitale, sfruttando il meccanismo delle de-regolamentazioni per abbassare il costo del lavoro (i famosi mercati del lavoro e dei capitali ‘flessibili’ o liberi). Questo meccanismo è stato fondamentale per accentuare la massimizzazione del profitto in quei settori difficilmente delocalizzabili, come ad esempio la metallurgia o il settore dei servizi. Le industrie ad alta intensità di capitale pongono maggiori ostacoli all’ingresso in quanto richiedono maggiori investimenti in attrezzature e macchinari per produrre beni e Servizi. Un’industria, un’impresa o un’azienda è considerata ad alta intensità di capitale prendendo in considerazione la quantità di capitale richiesta rispetto alla quantità di lavoro richiesta. Buoni esempi di industrie ad alta intensità di capitale includono l’industria della raffinazione del petrolio, l’industria delle telecomunicazioni, l’industria delle compagnie aeree e le autorità dei trasporti pubblici che gestiscono strade, ferrovie, treni, tram, ecc.

Molti paesi emergenti sono quindi diventati i “fabbricatori” dei beni di consumo dei paesi avanzati, creando catene globali del valore che hanno consentito ai monopoli finanziari, prevalentemente occidentali, non solo di massimizzare i profitti derivanti dalle loro attività produttiva, ma anche di concentrarsi ulteriormente attraverso processi di acquisizione e fusione tra monopoli, realizzati anche grazie ai volumi di extra-profitto appena descritti.

Parallelamente, molti di quei paesi emergenti, come la Cina, hanno cominciato a scalare la piramide delle catene globali del valore, portandosi ad un livello di sostanziale parità con i loro omologhi occidentali e cominciando a rappresentare un serio problema per i monopoli occidentali. Il problema principale è diventato, chiaramente, l’impossibilità per i “nostri” monopoli di accentuare ulteriormente il processo di implementazione delle catene globali a proprio vantaggio, data la dimensione e il peso sempre più grandi delle economie dei paesi che fino a quel momento erano stati l’obiettivo e che, invece, hanno cominciato ad utilizzare lo schema delle catene globali del valore a proprio vantaggio. A questo proposito, si pensi all’attivismo cinese nel settore degli investimenti industriali nei paesi avanzati. Un segnale di questo “dissesto” è stato rappresentato dalle guerre commerciali iniziate da Trump contro la Cina.

Il Covid-19, di fatto, ha posto una barriera agli scambi in un mondo in cui la produzione basata sulle catene globali del valore impone un costante e gigantesco flusso di merci (componenti fabbricate in luoghi diversi del pianeta, materie prime, prodotti finiti a basso valore aggiunto) e persone (analisti, specialisti, ingegneri) da una parte all’altra del pianeta.

Inoltre, il peso crescente della Cina e dell’India (in totale 3 miliardi di persone) – benché l’India, a differenza della Cina, non sia vista dall’Occidente come una minaccia – nelle catene globali del valore, hanno posto i monopoli occidentali in una condizione di progressiva sofferenza, vedendosi bloccare gradatamente l’accesso a mercati di paesi come quelli africani o sud-americani, tradizionalmente concepiti come serbatoi di rifornimento per materie prime, minerali e manodopera a basso costo.

Covid-19, quindi, ha offerto l’opportunità ai monopoli occidentali di mettere in atto una strategia di ri-localizzazione e trasformazione delle attività produttive nella propria area-geografica (in particolare quella euro-atlantica), che prima non sarebbe stata possibile a causa del grande impatto sociale che avrebbe avuto.

Il ruolo di Next Generation, in questa prospettiva, è esattamente quello di trasformare le economie nazionali dei paesi membri, per metterle in grado di riattivare sul loro territorio le produzioni che fino a questo momento sono state quelle più delocalizzabili, sganciandosi così dalla dipendenza di quelle catene globali del valore. Questa trasformazione, per soddisfare le condizioni della riduzione del costo del lavoro e della massimizzazione del profitto, deve riguardare principalmente il piano tecnologico e quello istituzionale. Una gran parte dei fondi di Next Generation, non a caso, sono destinati alla trasformazione digitale e tecnologica e alla trasformazione istituzionale. Questo implicherà che i governi dovranno prevedere, nei loro Piani Nazionali, investimenti massicci in tecnologia (principalmente Intelligenza Artificiale e cloud computing) per rendere snelli, efficienti e automatizzati (o semi-automatizzati) i processi produttivi e prevedere riforme istituzionali di “semplificazione” per tutti quei processi amministrativi funzionali alla facilitazione degli investimenti e alla liberalizzazione totale di interi settori.

Di fatto, il quadro globale che è stato descritto, porta a pensare che i monopoli economici non torneranno di certo in “patria” cambiando atteggiamento riguardo alla riduzione dei costi e alla massimizzazione del profitto. Anzi, certamente accentueranno questa tendenza, “spremendo” i limoni di casa loro, ovvero i popoli occidentali. Nell’UE, si accentuerà sempre di più la geometria concentrica del potere economico (e quindi politico), che vedrà la Germania sempre più al centro, e nei cerchi più esterni i paesi con una capacità decrescente di sfruttare a proprio vantaggio le dinamiche del capitalismo finanziario.

Un paese come l’Italia, con un basso tasso d’istruzione specialistico e abbondanza di manodopera non qualificata, si collocherà presumibilmente nel cerchio più esterno, come fornitore di manodopera a basso costo per le concentrazioni industriali europee che nasceranno e fornitore di servizi a basso valore aggiunto, come il turismo.

Il quadro in cui si muove l’UE

In questo quadro di riallocazione globale dei fattori di produzione, emerge con sempre più evidenza il processo di ri-equilibrio in atto tra l’Occidente e gli altri. Per comodità espositiva, intendiamo qui con “Occidente” l’insieme di quei paesi, prevalentemente occidentali ma non solo, che sono accumunati da forme di governo liberal-democratiche e da economie di mercato alimentate da un modello di sviluppo capitalista. Nella categoria “altri”, ricomprendiamo tutti quei paesi che non sono retti da modelli liberal-democratici e con sistemi economici variegati. Benché possa sembrare una semplificazione eccessiva e, per certi tratti, manichea, bisogna considerare il piano di analisi che si adotta, ovvero quello globale. A livello globale infatti, il grande scontro si produce sul modello di governance, descritto dall’Ordine Internazionale Liberale di cui gli Stati Uniti sono gli ideatori e gli egemoni. L’UE si inserisce all’interno di questo Ordine Internazionale, non solo come partecipante ma anche come sponsor delle regole che ne presiedono il funzionamento, basate sulla presunta validità universale del predicato politico liberale e sulla necessità di estendere a tutto il globo le regole economiche del liberismo.

Tuttavia, nel campo dell’Ordine Internazionale Liberale, l’Ue è solo un comprimario degli Stati Uniti, dal momento che manca dei requisiti dell’unità politica (è una unione sui generis tra Stati, mancando di una sua sovranità tipica) e soprattutto, di una forza militare continentale. L’UE, quindi, esprime l’insieme delle sue politiche imperialiste su un piano puramente derivato, essendo queste politiche il risultato o delle singole iniziative dei suoi stati membri, o della somma delle iniziative dei suoi Stati membri assunte sotto le direttive della Commissione. L’unica vera forza dell’Unione, ad oggi, risiede nell’Eurozona, ovvero quell’insieme di Stati membri che condividono la moneta comune, l’Euro, e nella quale ovviamente spiccano i paesi con la maggiore dotazione di capitale economico e finanziario: l’Italia, la Germania, la Francia, la Spagna. Non è un caso che proprio nell’ambito dell’Eurozona si sia consumata e si consumerà nel futuro la competizione tra le varie anime del capitalismo, europeista e nazionale, che caratterizzano i vari sistemi economici nazionali. Si tratta di una tensione costante tra le varie anime del capitalismo esistenti all’interno delle borghesie europee che si dividono tra gli interessi del capitalismo industriale, legato alle borghesie nazionali e “sovraniste”, e gli interessi del capitalismo finanziario, legato a quegli strati di borghesie cosmopolite e liberali. Questa situazione produce una dinamica contradditoria nell’ambito dei rapporti euro-atlantici, nei quali la UE è allo stesso tempo alleato strategico degli USA nel contrasto con Russia e Cina e concorrente diretto nel momento in cui insegue i propri progetti di consolidamento imperialista, al traino della politica estera tedesca che è definita sulla base delle esigenze del capitalismo tedesco di trovare nuovi mercati di sfogo.

Benché sia importante aver chiaro cosa succede nei salotti della borghesia capitalista, queste dinamiche non cambiano le sorti per la classe lavoratrice. Essa si trova schiacciata sotto la lotta di potere intestina tra le variegate anime delle borghesie europee e statunitensi, finalizzata alla conquista del predominio nel campo dell’imperialismo monopolistico occidentale. Oltretutto, la borghesia europea favorisce l’immigrazione forzata dai paesi in via di sviluppo e la sfrutta come arma di pressione e ricatto nei confronti dei lavoratori europei, imponendo la logica di perfetta sostituibilità della forza lavoro e alimentando, in questo modo, la guerra tra poveri. Chiaramente, NextGeneration EU e gli obiettivi di rafforzamento dell’Euro, dell’Unione Bancaria e del Mercato comune rispondono in maniera inequivocabile alle esigenze delle borghesie cosmopolite e liberali.

Dovremmo conoscere bene questa dinamica che si è sviluppata sul suolo europeo negli ultimi 20 anni. La sfida che stiamo affrontando è duplice: pratica e teorica. Sappiamo bene che la teoria segue la pratica e che non esiste teoria rivoluzionaria senza pratica rivoluzionaria.

La sfida, oggi, è ancora più difficile perché, affinché la teoria si sviluppi in pratiche rivoluzionarie, dobbiamo comprendere la realtà circostante in modo completo, non limitando la nostra visione al mondo che esisteva ieri. Il capitalismo è vivo e la lotta di classe ha virato in favore dei padroni. Nel continente europeo ciò è avvenuto grazie al tradimento da parte del comunismo europeo delle idee originali e del quadro teorico e allo sforzo travolgente compiuto dai settori capitalisti della società nell’ingegnerizzare un sistema economico internazionale capitalista altamente complesso e interdipendente, all’interno del quale tutti i cluster delle società nazionali del mondo sono state incorporate.

Se aspiriamo veramente a trasformare il mondo secondo la nostra visione che il socialismo e, alla fine, il comunismo sono la migliore forma di organizzazione sociale ed economica, allora abbiamo il dovere di studiare, approfondire la nostra conoscenza della realtà contemporanea e di capire come la nostra la teoria ci sta.

Questo non vuol dire che dobbiamo modificare la teoria, mai e poi mai! Tuttavia, dovremmo cercare il modo di adeguare la nostra battaglia, considerando che il nemico lo ha già fatto.

Questa pandemia ci sta dimostrando che l ‘”imperialismo” come strategia estrema del capitalismo è già in gioco e ha sfruttato la fase concomitante dell’emergenza sanitaria per lanciare il suo attacco finale. Lo chiamiamo “finale”, perché è diretto principalmente contro le popolazioni occidentali. Sta accadendo senza bombe e carri armati, ma attraverso banche e fondi di investimento. Il capitalismo si sta riorganizzando, reindirizzando i processi di estrazione di plusvalore ed esacerbandoli all’interno dei propri confini politici. Lo sta facendo attraverso processi di ri-localizzazione in Occidente di molte produzioni industriali e una profonda ristrutturazione degli standard di lavoro in ogni campo dell’attività economica, in termini chiaramente peggiorativi.

 

NextGeneration EU (o Recovery Fund)

Next Generation EU (a cui ci si riferisce spesso con l’espressione Recovery Fund) è lo strumento finanziario con cui l’Unione Europea intende fornire risorse aggiuntive ai paesi membri per favorire il percorso di uscita delle economie nazionali dalle strettoie create dall’epidemia/pandemia di Covid scatenata dalla diffusione di Sars/Cov2.

Il precedente che ha ispirato la creazione del programma Next Generation EU è un’intesa raggiunta tra  Emmanuel Macron e Angela Merkel, il 18 maggio 2020 (https://www.ilsole24ore.com/art/macron-merkel-piano-500-miliardi-la-ripresa-ue-AD358PR). Con questa intesa, i due presidenti hanno espanso l’idea originaria della Presidente della Commissione Ursula von der Leyen a proposito della creazione di un Recovery Fund per la ripresa. La proposta Merkel-Macron di maggio puntava a stabilizzare il finanziamento del fondo a 500 miliardi attraverso l’emissione di debito comune Ue, con obbligazioni emesse dalla Commissione e poi ridistribuito «alle regioni e ai settori più colpiti» con trasferimenti a fondo perduto. La proposta Merkel-Macron, inoltre, presentava quelli che, dopo la discussione e l’approvazione nel consiglio europeo di luglio 2020, sono diventati i pilastri fondamentali di Next Generation EU, ovvero transizione digitale, transizione economica e transizione ambientale, oltre al raggiungimento di obiettivi di “sovranità strategica” per l’UE, quali la sovranità tecnologica e scientifica. La proposta della Commissione, arrivata a fine maggio, faceva propria l’iniziativa Merkel-Macron, introducendo un pacchetto aggiuntivo di 250 miliardi da erogare in prestiti, portando così la dimensione finale dello strumento ai 750 miliardi di cui si parla oggi.

Il Consiglio europeo di luglio 2020 ha raccolto la proposta franco-tedesca, che era già stata fatta propria dalla Commissione, integrandola tanto con il dibattito in corso sulla definizione delle dotazioni finanziarie del bilancio pluriennale UE 2021-2027, quanto con i dubbi dei cd. paesi frugali che ne hanno osteggiato il percorso di approvazione.

Le due questioni, bilancio pluriennale (Multiannual Financial Framework/MFF) e Next Generation, sono state fortemente interpolate.

Il bilancio pluriennale è lo strumento attraverso cui l’Unione finanzia i suoi Fondi strutturali e d’investimento: Fondo europeo di sviluppo regionale – sviluppo regionale e urbano; Fondo sociale europeo – inclusione sociale e buon governo; Fondo di coesione – convergenza economica delle regioni meno sviluppate; Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale; Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca. Il finanziamento di questi fondi assorbe la maggior parte del bilancio.

L’entità del bilancio pluriennale è stata, tradizionalmente, stabile entro la media del 1,10% del reddito nazionale lordo europeo nella UE-28. Con l’uscita della Gran Bretagna, si è posto il problema di come mantenere il bilancio intorno ai livelli di finanziamento degli anni passati senza che questo comportasse un maggior onere per i paesi membri. Su questo punto si è scatenata la “battaglia” dei paesi frugali (Olanda, Danimarca, Austria, Svezia, Finlandia), che hanno intravisto il pericolo di vedersi ridurre la quota dei cosiddetti “rimborsi” (rebates, in inglese). I rimborsi sul bilancio dell’unione altro non sono che sconti fiscali ad hoc concessi dall’UE ai paesi membri che, in ragione della loro ridotta popolazione e della scarsa taglia della loro economia, non ricevevano fondi per la politica agricola in misura proporzionale ai contributi che versavano. A questi paesi, dunque, l’Unione rispose scontando i versamenti dei contributi IVA (che sono la principale fonte di finanziamento del bilancio UE). Oggi, Olanda, Danimarca, Svezia e Austria beneficiano di uno sconto pari a ¾ dei contributi che dovrebbero versare, dallo 0.3% allo 0.15% dei contributi IVA. Il “rebate” (o rimborso) ha una madre ben identificabile in Margaret Thatcher. Nel 1984, intervenendo a una sessione di negoziazione sul bilancio europeo, la Lady di ferro si lamentò con durezza delle problematiche imposte al Regno Unito dall’aumento dei fondi alla Politica agricola comune. L’interrelazione tra l’elevato Pil britannico e la ridotta quota del settore primario nella sua economia avrebbe portato Londra a pagare una quota di fondi alla Pac eccessivamente elevata rispetto ai finanziamenti che sarebbero poi tornati nel Regno Unito. Si arrivò dunque a un accordo che vide Bruxelles concedere a Londra la possibilità di ricevere ampi rimborsi muovendosi sul fronte dei contributi Iva, di cui rappresentava una delle massime fonti nell’Unione. Sostanzialmente, Londra riceveva dall’Unione Europea due terzi della differenza tra la percentuale dei suoi contributi al gettito Iva ottenuto dalle istituzioni comunitarie e la percentuale di fondi europei spesi sul suo territorio.

Il punto è abbastanza semplice. Dal momento che il prossimo MFF ingloberà Next Generation, portando il bilancio ad una dimensione di 1.824 miliardi di € (1.074 miliardi del MFF + 750 miliardi di Next Generation), i paesi frugali non hanno alcuna intenzione di rinunciare ai propri benefici per contribuire in maniera netta al bilancio che verrà. La questione ruota attorno al meccanismo di rimborso dei prestiti per 250 miliardi erogati da Next Generation.

Secondo il piano predisposto dalla Commissione e approvato al Consiglio europeo di luglio, i 250 miliardi di prestiti potranno essere erogati dopo che la Commissione avrà reperito le risorse attraverso l’emissione di obbligazioni (gli eurobond) sui mercati internazionali dei capitali, garantiti dal bilancio comunitario. Gli Stati membri, tuttavia, non saranno chiamati rimborsare i prestiti sulla base delle somme effettivamente ricevute, bensì in proporzione al loro reddito nazionale lordo. Quindi, anche gli Stati che non accederanno ai prestiti, di fatto contribuiranno al loro rimborso attraverso contributi in misura proporzionale al loro RNL. Ad acuire lo scontro c’è anche la proposta del Parlamento Europeo di aumentare la dotazione finanziaria del MFF, proprio attraverso la rimodulazione (riduzione) dei rimborsi.

Questo scontro sul piano finanziario ha portato l’ultimo Consiglio Europeo del 15-16 ottobre ad arenarsi, senza giungere ad alcun accordo sull’implementazione di Next Generation e sulle questioni relative al bilancio pluriennale.

Sullo sfondo vi è un problema sostanziale che divide i paesi del nord da quelli del sud. I primi hanno tendenzialmente un alto debito privato e un basso debito pubblico. Tutt’al contrario dei paesi del sud.

La Germania appartiene ai primi. Infatti le banche tedesche sono le più fragili oggi a causa del fatto che sono rimpinzate di titoli spazzatura. Per esempio, Deutsche Bank e Commerzbank hanno parametri completamente fuori controllo perché nel passato hanno fatto a privati prestiti andati in malora. Deutsche Bank, che ha a bilancio prodotti finanziari spazzatura per un valore nominale di 24 miliardi di euro, nonostante i tagli dovuti soprattutto alla riduzione del personale che vedrà altri 18mila licenziamenti, ha comunicato una perdita tra luglio e settembre di 832 milioni di euro, dopo le perdite da oltre 3 miliardi del secondo trimestre. Invece la situazione del debito pubblico di quel paese è più che rosea. Le ultime vicende della bancarotta di Wirecard e Greensill non hanno fatto altro che peggiorare le condizioni del sistema bancario tedesco. Il debito pubblico prima dello scoppio della pandemia era di 1.914 miliardi, pari al 62% del PIL. Quindi ha grandi margini per estendere il proprio debito rispetto a paesi – in primis l’Italia – che invece sta subendo uno sforamento che ha portato il suo debito dal 130 al 160 percento del PIL.

Altro esempio macroscopico è il debito privato olandese pari, alla fine del 2019, alla cifra monstre del 220 percento del PIL, contro il 55 percento di quello italiano. In Olanda «debito del settore privato nel suo complesso che – seppure in leggera discesa rispetto al 2018 – raggiunge il 231% del Pil contro il 107% dell’Italia. In particolare, il debito delle società non finanziarie si attesta al 132,3% del Pil, mentre in Italia è fermo al 66,1%. L’indebitamento delle famiglie è pari al 98,7% del Pil in Olanda e al 41,2% in Italia» (Il Sole 24 Ore).

«Nella guerra contro le devastanti conseguenze economiche dell’epidemia, l’Italia ha un’arma importante: il più basso debito privato tra tutte le maggiori economie avanzate. Nel 2019 famiglie e imprese avevano un debito pari al 110% del Pil, contro il 150% degli Stati Uniti, il 165% del Regno Unito, e fino al 253% della Svizzera e al 264% dell’Olanda.» (https://www.refricerche.it/fileadmin/Materiale_sito/contributi/Comunicato_1apr20.pdf)

La Germania però ha un ruolo di leader politico che sopravanza il mero conto finanziario, al contrario degli altri paesi “frugali” e quindi deve farsi interprete di esigenze complessive dell’Unione. Ciò non avviene, si badi, per mero dirigismo né men che mai per altruismo verso i Paesi “cicale”, ma per stretto interesse economico. Infatti, l’economia manifatturiera tedesca è strettamente integrata con quella del nord-est italiano, ma anche con molte altre del Vecchio Continente, principalmente i paesi del nord-europa e dell’est europeo (principalmente Polonia e Ungheria), questi ultimi per via di un flusso crescente di investimenti esteri diretti tedeschi cresciuti negli ultimi 10 anni. Nell’impossibilità di sciogliere i vincoli statuali di quei paesi e di buttare a mare la parte residuale (pensiamo in particolare al Mezzogiorno d’Italia) e in ogni caso a causa della rilevanza economica di quella parte come mercato privilegiato e non concorrenziale in cui quelle lande vengono tenute, è chiaro che si deve elaborare una strategia che sia in grado di tenere tutti sulla stessa barca, ma allocare ordinatamente chi nella tolda di comando e chi sottocoperta ai banchi dei remi. In questo contesto la Germania svolge il duplice ruolo di regista e attore e ciò spiega le tensioni che nascono nella sua classe politica.

Per loro fortuna, i titoli di stato federali ancora sono tutti emessi con tassi negativi, a riprova della fiducia dei risparmiatori in merito alla loro solvibilità. Ciò è soprattutto dovuto al fatto che la bilancia commerciale e finanziaria tedesca è da anni sbilanciata in senso positivo: si esporta molto di più di quanto si importa e ciò corrisponde a un forte flusso di capitali verso quel paese. Il tutto a scapito delle economie periferiche.

Il problema finanziario italiano invece è quello che già prima della pandemia si ha un alto debito pubblico: al 30 settembre 2019 era pari a 2.439 miliardi di euro. Nel 2018 si assestava pari a 134,8% del PIL, oltre il doppio di quanto dovrebbe essere secondo i parametri obiettivo dell’Europa, ossia il 60%. Oggi tutto ciò viaggia intorno al 160%. Quanto appare ridicola la polemica del governo giallo-verde che riuscì a strappare uno 2,04% contrabbandandolo per un 2,4%). Allora si litigava sui milioni di euro, oggi si viaggia a colpi di miliardi.

Se si guardava al deficit al netto degli interessi, si aveva un avanzo primario; significa che il grande sforzo che si stava facendo non era tanto per ridurre il debito, ma per pagarne gli interessi che ancora gravano, nonostante l’abbassamento dei tassi, a causa del forte residuo di emissioni effettuate negli anni passati a tassi molto alti. Il peso degli interessi è pari per il 2017 a 65,49 miliardi e in calo, ma sempre mostruoso per 2018 (64,9). Siamo intorno al 3% del PIL. È bene tenere presente che nell’ambito sia dell’Eurozona che dell’UE, l’Italia è stato l’unico paese a mantenere dal 1993 un avanzo primario positivo in media dell’1,5% (con punte di quasi il 3% in anni specifici). Tutte risorse sottratte agli investimenti pubblici e, quindi, al benessere della popolazione.

Il problema finanziario nato ora è il seguente: riuscire a far indebitare i paesi che già sforano i parametri di convergenza senza far impennare i tassi, almeno nel breve periodo. Imbarcare improvvisamente troppa acqua nella nave potrebbe farla affondare. Da qui il meccanismo di aumentare nel breve il debito e poi con calma occuparsi di come pagarlo. Oltretutto, questa strategia, andrà testata nel futuro contro i progetti di riforma della governance economica dell’Unione, che già sono in discussione a Bruxelles. Anche se si arriverà ad un allentamento dei parametri fiscali stabiliti a Maastricht, non bisogna dimenticare che i debiti contratti e da contrarre in questi mesi e nel futuro dal Governo Italiano nell’ambito del programma SURE e NextGeneration EU saranno debiti contratti con la Commissione Europea e, quindi, al di fuori del quadro normativo di diritto italiano che normalmente regola l’emissione e la messa all’asta dei nostri titoli di Stato. Questo implicherà che potranno anche essere allentati i vincoli fiscali sulla spesa pubblica fissati dalla normativa comunitaria, ma con tutta probabilità si tratterà di una spesa pubblica realizzata secondo le linee guida dettate dalla Commissione, che avrà sempre la leva contrattuale dell’attivazione del meccanismo di sorveglianza rafforzata per garantire la disciplina di finanza pubblica adeguata per rifondere il debito con lei contratto e salvaguardare la stabilità della zona euro.

Liberarsi di questo peso che impedisce di potere tornare a manovrare ampiamente con una politica economica di ampio respiro è il desiderio di tutti. Il problema però è duplice: chi paga e a chi gioverà. Il primo, la maggior parte di questo debito (il 51%) è direttamente o indirettamente (attraverso fondi di investimento e banche) in mano al settore privato italiano, con un 6% detenuto da famiglie e imprese italiane. Un taglio dei rendimenti colpirebbe il risparmio, portando a un contraccolpo difficilmente assorbibile da parte delle banche. Il secondo è: ma anche se si arrivasse a poter liberare risorse a spese del piccolo risparmio, esse dove andrebbero? La NATO reclama di raggiungere in breve tempo una spesa per la difesa pari almeno al 2% del PIL ed oggi siamo intorno all’1%. Le grandi opere reclamano, voraci, sempre più soldi. È chiaro che una ristrutturazione fatta in nome e per conto del grande capitale monopolistico mai e poi mai potrebbe favorire i lavoratori. Nell’epoca in cui la quantità di lavoro umano sostituito dalle macchine è sempre più forte, forse si potrebbero trovare risorse per distribuire basso reddito in modo da tenere artificialmente elevati i consumi senza che ciò aggravi la crisi di sovrapproduzione da cui è affetto costituzionalmente il capitalismo e in particolare quello europeo. Ma ciò significherebbe ancora una volta sostituire salario con elemosina, come abbiamo più volte affermato e sempre a spese delle tasse e questa volta anche del piccolo risparmio.

A questo punto arriva la svolta innescata dalla pandemia che scompiglia tutte le carte, riazzera il dibattito portandolo a un livello infinitamente superiore, facendo ripartire il tasso di indebitamento, ma dando una sterzata formidabile a tutta la struttura economica dei paesi dell’area Euro, che ormai dopo la Brexit, tranne qualche trascurabile eccezione, ormai si identifica con l’Unione.

Vediamo nel dettaglio.

Next Generation EU (NGEU)

Il fondo si aggiunge alle risorse di cui è dotato il bilancio pluriennale 2021-2027 (bilancio che non è ancora stato approvato) ed è concepito per stimolare la transizione digitale, economica e climatica dei paesi membri e, in questo modo, creare le condizioni per una futura crescita economica, stabile e costante, dell’economia UE. Un obiettivo integrato è quello della cd. convergenza delle economie nazionali, ovvero di una progressiva e sempre maggiore integrazione delle economie nazionali verso una economia di dimensioni propriamente europee. Le risorse per finanziarlo saranno recuperate attraverso l’emissione di Eurobond da parte della Commissione Europea e, per questo, si parla di una sorta di debito comune dell’Unione. Dei criteri per il rimborso delle somme erogate si è già detto sopra. È organizzato per “pilastri”, che non sono altro che ambiti d’intervento precisi e definitivi concepiti per realizzare le finalità del Fondo.

Come funzionerà NGEU

Il Consiglio Europeo sarà l’organismo che ne garantirà la Governance. Il ruolo della Commissione, invece, sarà consultivo e di verifica tecnica e costituirà la base sulla quale il Consiglio approverà di volta in volta le richieste di finanziamento degli Stati Membri.

Gli Stati membri potranno accedere ai finanziamenti dopo che la Commissione avrà approvato i loro Piani Nazionali di Resilienza e Ripresa (PNRR). Il PNRR non è altro che un documento programmatico, nel quale il paese membro dovrà indicare in maniera precisa tempi, modalità e strategie con le quali intende raggiungere gli obiettivi di transizione digitale, economica e climatica indicati dalle Conclusioni del Consiglio EU di luglio 2020 (https://www.consilium.europa.eu/media/45118/210720-euco-final-conclusions-it.pdf).

Gli Stati membri hanno avuto tempo fino al 15 ottobre 2020 per inviare alla Commissione le linee guida dei propri PNRR, per una valutazione preliminare della compatibilità tra queste e le manovre di finanza pubblica degli anni successivi. Le linee guida del PNRR italiano si trovano a questo link: http://www.politicheeuropee.gov.it/media/5377/linee-essenziali-pnrr-italia.pdf. Per l’Italia sono la Nota di Aggiornamento al DEF (NADEF) e il Documento Programmatico di Bilancio (DPB).

Dopo questo passaggio, i vari governi avranno il tempo per definire in maniera completa e le versioni finali dei propri PNRR, che dovranno anche contenere l’illustrazione di tutti i progetti d’investimento e le agende di riforma, accompagnati da una valutazione esaustiva dei tempi, modalità, obiettivi e costi. Quindi, a partire dal 1 gennaio 2021, i Governi europei hanno potuto cominciare ad inviare i propri piani alla Commissione per la verifica di compatibilità con le indicazioni che essa stessa ha fornito con la strategia annuale per la crescita sostenibile (ASGS) 2021 (https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/it/IP_20_1658 e con le indicazioni specifiche per la stesura dei PNRR https://ec.europa.eu/info/sites/info/files/3_en_document_travail_service_part1_v3_en.pdf.

L’attuazione dello strumento sarà coordinata dalla task force della Commissione per il recupero e la resilienza in stretta collaborazione con la direzione generale degli Affari economici e finanziari. Il comitato direttivo presieduto dal presidente Ursula von der Leyen fornirà una guida politica alla task force per contribuire a garantire che lo strumento sia attuato in modo coerente ed efficace.

Conclusioni

Prendiamo lezioni dal recente passato.

In Grecia la ristrutturazione di titoli di stato su 200 miliardi di euro portò alla decurtazione del 53,5% e l’allungamento delle scadenze. Con questo “haircut” (taglio di capelli), Atene risparmiò 107 miliardi di euro, ma solo a scapito dei bond posseduti dagli investitori privati e non anche quelli da BCE, EFSF e FMI. Questo taglio però fu condizionato dai Memorandum della Troika (BCE, FMI, Commissione UE): privatizzazioni, riduzioni di salari e pensioni che hanno stremato la Grecia. A pagare la ristrutturazione sono stati i risparmiatori e ad approfittarne sono stati i monopoli stranieri ma anche greci. L’operazione è riuscita, ma il paziente è morto. Ora questo è l’unico caso di ristrutturazione verificatosi in Europa dal dopoguerra, mentre per Cipro, Portogallo, Irlanda e Spagna e la stessa Grecia, è intervenuto il MES a protezione della valutazione di quei titoli, agendo come prestatore di ultima istanza.

Al momento si dice che non ci sia un rischio default per alcuna delle economie dell’area euro, soprattutto considerando che i tassi sono bassissimi per tutte e addirittura negativi per molte, nonostante l’impennata del debito.  Nella recente conferenza Draghi lo ha confermato: non c’è il MES alle viste. Del resto, il bazooka dei tassi negativi che egli ha usato quando era governatore della BCE, che in buona sostanza ha evitato il percorso di tipo “greco” all’Italia, conferma che per un paese centrale come il nostro il trattamento previsto è di tipo diverso.

In buona sostanza. La borghesia europeista italiana sta facendo fronte comune con il resto dei monopoli europei. Questo potrebbe condurre ad azioni radicali. Se si parla di ristrutturazione del debito nessuno può credere che sia solo in via teorica. Si stanno predisponendo piani per vincolare irrevocabilmente l’azione politica italiana alle scelte europee. Questo potrebbe avvenire a scapito dei settori più bassi del capitalismo italiano e non solo (i famosi settori economici che non sopravvivranno). Il peso del debito pubblico italiano non è insostenibile, ma è una pietra al collo per manovre più decise da parte del grande capitalismo. La strada più diretta è scaricare in un sol colpo tutto il sovrappiù di debito sulle spalle del piccolo e medio risparmio, facendo pagare i piccoli e preservando i grandi (prepariamoci, ad esempio, alla rivalutazione delle rendite catastali e della reintroduzione dell’IMU sulla prima casa che, in un paese di proprietari di casa, garantirebbe entrate record). Si distruggono i capitali più piccoli, si concentrano in quelli più grandi e si pongono le basi per una capacità dello stato borghese di operare su un livello molto più alto al servizio dei grandi monopoli. Anche attraverso un’integrazione che non fa sconti.

È quello che ha fatto sempre il capitalismo. La crisi di sovrapproduzione induce una crisi finanziaria, anche se è quest’ultima che noi vediamo scoppiare per prima e più virulentemente. Ma il capitalismo sa che la soluzione è nel sistema produttivo, anche se le risorse vanno trovate in quello finanziario. Ma anche lì, a partire dai pesci più piccoli.

I grandi monopolisti odiano la ricchezza che è ancora grandemente accumulata nella periferia dell’Europa, in Italia soprattutto, che non riescono a mettere in circolo per i loro grandi progetti. Ma ciò non si può fare mettendo in discussione la sacralità della proprietà privata e del risparmio, ma attraverso l’azione dello stato borghese che costituisce lo strumento perfetto per espropriare i piccoli preservando i grossi. (Si veda, quanto diceva Marx, nelle Teorie sul plusvalore, Parte II, a proposito della proprietà statale dei monopoli).

In tutto questo, quale dev’essere la posizione dei lavoratori italiani e quale il lavoro dei comunisti?

Primo, bisogna far capire che non sono certo i lavoratori tedeschi ad avere interessi contrastanti con quelli dei lavoratori europei periferici: anche i lavoratori tedeschi pagano per salvare le rendite dei banchieri loro connazionali. È piuttosto un’ideologia pervasiva lungo tutto il continente che tende a schiacciare i più deboli a favore della tutela di chi gode di maggiore potere negoziale e maggiore profitto dal mercato capitalistico integrato finanziario-produttivo. Ancora più letale sarebbe un accodarsi della classe operaia dell’Italia del nord alla propria borghesia, attirata dal miraggio di potersi tirare fuori dal pantano tagliando il Sud. Come abbiamo visto ciò non avverrà, ma soprattutto a pagare la crisi del capitalismo saranno comunque i lavoratori del nord e del sud, coloro che pagano le tasse e hanno qualche soldo di risparmio accumulato o la prima casa. L’altra letale contrapposizione che viene esacerbata ad arte in questi mesi è quella tra lavoratori dipendenti e lavoratori autonomi. Tra i primi, i secondi sono accreditati di essere tutti nababbi evasori, i secondi vedono i primi tutti come parassiti garantiti. È chiaro che la prima cosa che si dovrà fare sarà di chiudere queste artificiali divisioni, che ricordano la lotta tra operai inglesi e irlandesi di marxiana memoria, divisioni che si possono rivelare ben più perniciose di quelle tra lavoratori italiani e stranieri, o tra vecchi e giovani o tra uomini e donne.

Secondo, nella lotta tra i settori borghesi non si deve parteggiare per questo o per quello, ma occorre comunque avere chiari i termini della commedia che sta andando in scena. La ramificazione dei piccoli risparmiatori in Italia arriva a lambire anche il risparmio accumulato dai lavoratori nelle epoche passate. Così come le privatizzazioni sono state l’assalto del grande capitale alla ricchezza pubblica accumulata col sudore dei lavoratori e racchiusa nella vecchia IRI, oggi siamo all’assalto alla piccola ricchezza privata. Non sono né le banche italiane, né i “sovranisti” a poter difendere questa categoria. Anzi, i “sovranisti” saranno i primi a tradirli, come hanno fatto con le truffe bancarie, salvo strillare quando i buoi sono già scappati. La filiera produttiva norditaliana è così integrata nel sistema tedesco che mai i padroni italiani dichiareranno “guerra” alla Germania, ossia al capitalismo tedesco. In realtà con questo c’è un rapporto di sudditanza/collaborazione, schiacciati tra la necessità di non indebolire i profitti del capitalismo tedesco, da cui proviene buona parte dei propri, e la necessità di ricavare quote maggiori, o comunque non decrescenti, per sé. Fino a quando l’economia “tira”, tutto bene, la torta è più grossa e profitti ce n’è per tutti; ma in tempi di vacche magre si acuiscono i contrasti. Non è una storia nuova. La grande borghesia ha perso il proprio ruolo storico progressivo, che Marx fino a un certo punto gli riconosce, con il tradimento della Comune di Parigi del 1871, di cui abbiamo appena celebrato il centocinquantesimo anniversario, quando i “patrioti” borghesi aprirono le porte al nemico pur di schiacciare la prima rivoluzione proletaria.

Solo i lavoratori – dipendenti e autonomi, italiani e stranieri, giovani e anziani, uomini e donne – uniti in una lotta che li veda uniti contro le manovre antipopolari del grande capitale monopolistico europeo, e italiano in particolare, possono recuperare questo ruolo “nazionale”. Ma la guida ideologica che proviene dal suo ruolo storico, dal fatto che essa, unica classe rivoluzionaria fino in fondo, la deve avere il proletariato. Alla testa e non alla coda di questo movimento, capace di unificare le lotte e gli interessi di tutte le classi subalterne, schiacciate dalla crisi.

E in ciò solo una visione chiara dei processi politici, economici e sociali, che l’avanguardia dei lavoratori, riuniti nel proprio partito, può essere garanzia del corretto indirizzo della ripresa della lotta di classe.

La pandemia è l’occasione per i padroni di riorganizzare la società su basi diverse. Facciamo sì che queste basi non siano le loro ma quelle dei lavoratori.

Ma sia anche l’occasione per noi per essere rigorosi e creativi (non eclettici) e, a partire dallo studio e dall’analisi concreta della situazione concreta, elaborare nuovi modelli di sviluppo non zavorrati dall’empirismo legato al passato e in grado di risolvere il conflitto tra capitale e lavoro a favore di quest’ultimo.