IL MOSE: SOLDI PUBBLICI IN FONDO AL MARE

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IL MOSE: SOLDI PUBBLICI IN FONDO AL MARE

“Poche mani non sorvegliate da nessun controllo tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora”,
scriveva Gramsci nel 1917.
Già il 6 dicembre del 1660 lo scienziato Federico Gualdi aveva proposto ai Savi un progetto per difendere la città dall’acqua: una diga tra mare e terra. Fino ad allora tutte le opere idrauliche erano state effettuate per proteggere la città dalla terra, per impedire che essa si impadronisse della laguna a causa del naturale processo di deposito dei detriti, e che i suoi canali diventassero strade. Il progetto venne però respinto dalla Serenissima, forse per la difficoltà di pensare di dover difendere la città dall’acqua, nella quale era immersa fin dalle sue origini.
Da allora, nello scorrere dei secoli, c’è stato un aumento progressivo della frequenza degli episodi di allagamento. Ai fenomeni naturali si sono aggiunte le opere dell’uomo come, per citare solo alcuni esempi, l’apertura del ponte translagunare, la costruzione della seconda zona industriale, lo scavo del canale dei petroli, la bonifica delle barene per la costruzione dell’aeroporto Marco Polo, la costruzione dell’isola del Tronchetto, il prelievo a fini industriali di acqua di falda (che ha incrementato lo sprofondamento del suolo).
La riduzione della superficie lagunare fu naturale conseguenza di tali interventi e, tra le altre, anche una delle cause della tragedia del 4 novembre 1966, quando l’ acqua granda si portò via 40 miliardi di lire di danni, distrusse le coltivazioni agricole di Sant’Erasmo e Cavallino, danneggiò monumenti come il teatro “La Fenice” e la Biblioteca Marciana, mettendo infine in cassa integrazione 2550 operai delle industrie del vetro di Murano. La ‘marea nera’ della nafta per il riscaldamento fuoriuscita dalle cisterne scoppiate invase la città e migliaia di persone furono sfollate dalle loro case.
Il 23 aprile del 1970 il Corriere della sera salmodiava che, ormai, la prima e la seconda zona industriale erano cosa fatta, e che per poterle spiantare e trasferire appena fuori dal comprensorio lagunare ci sarebbe voluto lo Stato Sovietico. Questa frase, pronunciata da un fascista come Montanelli, appare paradossale: ma è indicativa di come, già allora, si avesse la percezione (anche se anestetizzata dal politicamente corretto, che comunque portava a concludere che “cosa fatta, capo ha”), che il sistema capitalista stesse creando il mostro del sistema stesso. Ormai il gioco era iniziato, e tanto valeva giocarlo; un gioco costato molto e attuato dall’ industrializzazione di Porto Marghera nei confronti dell’ambiente, dei lavoratori uccisi dalle esalazioni venefiche di CVM che aspiravano in fabbrica, dei cittadini, della laguna di Venezia violentata e sfruttata, che ha raccolto negli ultimi 100 anni tutto il male di una società liberista che ha voluto trarre tutto il possibile profitto dal territorio, sconvolgendo il delicato ambiente acqueo.
In questo scenario si aprì il delicato capitolo del Mose. Dopo il tragico evento dell’acqua granda si era creata la consapevolezza che la laguna, prima percepita dai pescatori e da tutti i veneziani come un luogo domestico e sicuro, rispetto al mare che era ostile e temibile per il rischio di naufragi, potesse diventare un vero pericolo, che conveniva contrastare con soluzioni tecnologiche.
Proprio nel 1970 il CNR di Venezia bandì il Concorso di idee su opere di difesa dall’acqua alta nella laguna di Venezia, in occasione del quale si incominciò a proporre la chiusura delle bocche di porto. Nel 1973 venne varata la prima Legge Speciale per la salvaguardia di Venezia e della laguna (la 171/73). Nel 1975 venne indetto un nuovo Concorso da parte del Governo, ma nessuno dei progetti presentati incontrò il favore della Commissione, che li acquisì tutti al fine di studiarli.
Fra questi progetti ve ne era uno degno di particolare nota, ideato dall’ingegnere navale Alberto Pellegrinotti, un veneziano di idee socialiste, grande amante della sua città e della sua laguna. Pellegrinotti aveva ideato il progetto delle “navi porta”: un sistema semplice, funzionale, che costava poco più di una pipa di tabacco. Si trattava di tre sbarramenti mobili, simili a carene di navi, da porre alle bocche di porto di Lido, Malamocco e Chioggia. Tali sbarramenti, similmente a navi, avrebbero potuto essere condotti in loco solo in caso di bisogno, ancorati a dei piloni e fatti affondare mediante il loro riempimento con acqua di mare, finché non avessero terminato la loro funzione durante l’alta marea; questo progetto non trovò l’approvazione della commissione. Forse perché non permetteva di lucrare durante le fasi di realizzazione e di manutenzione?
Dagli studi nacque un progetto: esso prevedeva diversi interventi che interessavano anche i fondali, gli argini dei fiumi, le case. Nel 1984 venne emanata la seconda Legge speciale per Venezia (la 798/84), con cui si stanziano i primi fondi per la laguna. La coordinazione e il controllo dei progetti vennero affidati ad un Comitato composto dal Presidente del Consiglio dei ministri, da alcuni ministri, dal Presidente della Regione Veneto, dai sindaci di Venezia e Chioggia e dall’antico Magistrato delle acque, l’ente locale che da secoli si occupava della gestione della laguna. Inoltre, si affidò la realizzazione concreta del progetto a un consorzio di imprese, dietro trattativa privata e senza alcuna gara d’appalto. Da questa decisione deriverà il triste epilogo giudiziario che vedrà coinvolti il sindaco di Venezia, il Presidente della Regione Veneto, i vertici del Consorzio Venezia Nuova, imprenditori, politici e perfino alti esponenti della Guardia di Finanza.
Nel 1989 il Consorzio Venezia Nuova presenta un progetto nuovo: il Modulo Sperimentale Elettromeccanico (MoSE).
Ben prima che a Venezia si cominciasse a pensare di dover proteggere la laguna, nei Paesi Bassi erano già state realizzate 13 opere idrauliche lunghe 25 km, e a Rotterdam il MoSE era stato scartato, oltre che per la pericolosità, perché avrebbe previsto una manutenzione costosissima. Lo stesso progetto invece, per lo stesso motivo, incontrò l’entusiasmo in Italia: dopo averne scartati molti simili a quello di Pellegrinotti, evidentemente troppo economici nella costruzione e nella manutenzione, si optò per il più costoso, che portò alle vicende giudiziarie sopradette.
Il MoSE, in origine, prevedeva una spesa di 1,3 miliardi di odierni euro, con un’entrata in funzione nel 1995. La spesa attuale, invece, si aggira già intorno ai 6 miliardi, non calcolando le enormi venture spese di manutenzione, per un’opera che, non essendo ancora stata ultimata, cade già a pezzi. Una grande opera di ingegneria idraulica, con 78 paratoie mobili, una delle tante imponenti opere che mostrano come il capitalismo affronti i problemi del territorio: con mastodontiche soluzioni dove si possano concentrare enormi quantità di denaro pubblico, per far poi finire enormi profitti nelle tasche degli speculatori corrotti. Questo invece di pensare realisticamente al territorio con rispetto e oculatezza, ed intervenire ai danni fatti nel passato con lavori adeguati al territorio stesso, ispirati ad un senso di realtà e di economicità, nel senso dell’utilizzo delle risorse economiche per le reali esigenze del problema, e non per mero profitto. E’ questo, invero, il nocciolo della questione: il sistema capitalista permette e favorisce le speculazioni e, secondo l’ottica della massimizzazione del profitto, sfrutta il territorio senza pensare al benessere della popolazione, che passa necessariamente per la tutela ambientale.
Ora ci troviamo, alle porte di un autunno che si preannuncia già difficile, con un’opera che cade a pezzi ancora prima di essere ultimata e che, nonostante si siano pubblicamente sminuite le problematiche da parte dei responsabili e delle istituzioni, ha rivelato numerosi problemi già in sede di test, con condizioni meteorologiche favorevoli che di rado si verificano al momento del bisogno: la schiera delle paratoie di Malamocco si è sollevata in ritardo; quattro paratoie di Treporti non sono tornate nei cassoni in fondo al mare per l’accumulo inevitabile di detriti; sono emerse numerose criticità (valvole rotte, tubi che perdono acqua, infiltrazioni tra le giunture fra i cassoni, corrosione delle cerniere). In particolare le cerniere corrose rappresentano un pericolo, in quanto, per un fenomeno di ridondanza, se si staccasse una paratoia, essa se ne porterebbe facilmente dietro altre: possiamo immaginare il pericolo rappresentato da questi elementi trasportati dalla corrente per la laguna!
Ieri, sabato 3 ottobre, il fragile meccanismo si è alzato, ma quanto durerà? E quando ci saranno condizioni di criticità meteorologica, siamo certi che funzionerà in sicurezza?
La perizia recentemente commissionata dal Ministero delle Infrastrutture e firmata dal prof. Paolucci, esperto in metallurgia, rivelava il pericolo di cedimenti strutturali per la corrosione e per l’uso di vernici non adatte: il rischio è quello di un cedimento delle paratoie.
“La natura metallica non inossidabile del materiale prescelto con cui è stata realizzata la maggior parte dei componenti immersi “, scrive Paolucci, “rende quest’ultimo particolarmente vulnerabile alla corrosione elettrochimica provocata dall’ambiente marino”.
Anche se per un miracolo il Mose funzionasse per un certo periodo, i costi si aggirerebbero intorno ai cento milioni di euro l’anno, che si sarebbero voluti scaricare sul turismo, mediante l’introduzione di una “imposta di scopo”, prima dell’emergenza coronavirus che ha quasi annullato le presenze in città. Non è chiaro, insomma, chi farà fronte a questo impegno economico.
Una possibilità reale sarebbe quella di smettere di buttare enormi quantità di denaro pubblico per rattoppare un’opera complessa, farraginosa e inutile.
Noi del Partito Comunista pensiamo che non basti la competenza e la preparazione per realizzare opere di tutela del territorio, ma che serva partire in primis da una onestà morale che metta al primo posto il benessere della popolazione. Questa premessa è da garantire con il sistema di organizzazione delle società: impossibile da attuare in un sistema capitalista, che permette la speculazione e la corruzione, in cui non si può garantire che la ricerca e la progettazione sia scevra da interessi economici, è garantita invece in una società di tipo socialista, in cui la nazionalizzazione prevale in tutte le opere e i servizi di pubblico interesse, in cui non esiste spazio per la speculazione e il profitto.
Saremmo ancora in tempo per prendere in considerazione progetti semplici come quello, che da molti era stato apprezzato, delle “navi porta” di Pellegrinotti. Ma significherebbe ammettere di aver sbagliato tutto, finora, e svuotare le tasche dei soliti capitalisti.

1 Comment

  1. michele addonizio ha detto:

    E infatti mentre ieri i telegiornali vantavano che finalmente grazie al MoSe Venezia era asciutta, oggi gli stessi telegiornali facevano vedere Venezia invasa dall’acqua. Evidentemente l’acqua passa lo stesso attraverso varie fessure solo che ci mette più tempo ad arrivare a piazza S. Marco.
    Uno scandalo ed un enorme spreco di soldi pubblici che i responsabili politici e tecnici che hanno approvato questa inutile e costosa opera non pagheranno mai.

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