PANDEMIA E COMPLOTTISMO: LA ZOONOSI

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PANDEMIA E COMPLOTTISMO: LA ZOONOSI

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PANDEMIA E COMPLOTTISMO: LA ZOONOSI

di Alessandro Bartoloni

 

libro-bartoloniI commenti pubblicati su Sinistrainrete alla relazione del compagno Alessandro Pascale intitolata Le menzogne sulla pandemia COVID ben testimoniano lo stato dell’analisi da parte della cosiddetta sinistra. Per molti, troppi, compagni, pensare che il SARS-CoV-2 sia un prodotto artificiale è ancora sinonimo di complottismo e irrazionalismo antiscientifico. Un po’ perché a rilanciare per primi la tesi dell’origine artificiale del virus sono stati gli esponenti della peggior destra (ad es. Matteo Salvini), dimostrando con ciò che anche tra le nostre fila c’è chi guarda il dito e non la Luna. Un po’ perché la sinistra più o meno antagonista ha da tempo abbracciato il paradigma epistemico popperiano che contrappone la scienza ad una presunta “teoria cospiratoria della società”[1]. E poi perché, dettaglio non da poco, prove concrete dell’origine artificiale del virus non ne sono ancora emerse.Pertanto, la maggior parte delle voci critiche predilige la teoria che vuole il SARS-CoV-2 nato tra i pipistrelli e arrivato all’uomo attraverso il cosiddetto “salto di specie” (zoonosi o spillover, che dir si voglia), con la complicità di qualche pangolino e del mercato di Wuhan. In pratica, saremmo di fronte ad un fenomeno naturale la cui probabilità di accadimento è aumentata a causa delle attività umane. Una posizione apparentemente inoppugnabile e chiaramente espressa dagli specialisti. «Se il momento esatto e la natura della comparsa di una malattia non può essere previsto, è necessario considerare seriamente l’aumentata probabilità di rilevare e affrontare una precipitazione degli eventi fino all’emergenza a causa di ambienti antropizzati»[2]. Così alcuni ricercatori nel 2018 che hanno studiato proprio l’interazione tra pipistrelli, Coronavirus e deforestazione e per i quali «la probabilità di insorgenza del rischio di infezione è in aumento a causa dei cambiamenti ambientali e della maggiore pressione sull’ambiente».

«Gli ambienti antropizzati possono fornire un habitat accettabile per una vasta gamma di specie di pipistrelli, generando così una maggiore diversità di pipistrelli e, a sua volta, di virus trasmessi dai pipistrelli vicino alle abitazioni umane». Infatti, «a differenza degli ambienti naturali che sono altamente selettivi, questi paesaggi alterati sono accettabili da una vasta gamma di specie di pipistrelli che di solito non si trovano insieme. Inoltre, le luci di casa attirano un gran numero di insetti di notte, offrendo facili prede per i pipistrelli insettivori. Case e fienili offrono riparo ai pipistrelli delle caverne, mentre frutteti e campi attirano i pipistrelli frugivori. Questo effetto attraente degli ambienti antropizzati sui pipistrelli con diverse esigenze biologiche si traduce in una maggiore concentrazione e biodiversità di virus trasmessi dai pipistrelli. Ciò aumenta il rischio di trasmissione di virus attraverso il contatto diretto, l’infezione di animali domestici o la contaminazione da urina o feci».

E anche se

«gli eventi di trasmissione diretta [pipistrello-uomo] rimangono rari, essi sottolineano comunque il rischio associato a una maggiore biodiversità di pipistrelli e a una maggiore densità di popolazioni di pipistrelli in prossimità dell’uomo. E qualunque sia l’accuratezza relativa al numero di Coronavirus attualmente in circolazione tra i pipistrelli, rimane ovvio che il rischio che nuovi virus emergano dai pipistrelli è probabilmente molto alto. Inoltre, essendo il Sudest asiatico una delle regioni del mondo dove la crescita demografica è più forte, dove le condizioni igienico-sanitarie rimangono scarse e dove il tasso di deforestazione è più alto, esso soddisfa tutte le condizioni per diventare luogo di insorgenza o ricomparsa di malattie infettive».

Pertanto, «se una priorità è scoprire opzioni terapeutiche e vaccini, è ancora più importante lavorare sull’educazione e sulla consapevolezza delle persone riguardo ai rischi associati agli ambienti antropizzati». Un’analisi cristallina, compiuta in tempi non sospetti, conclusa con la più classica delle soluzioni individualizzanti tipica degli scienziati borghesi.

Di trasformazioni socio-economiche, neanche a parlarne. Il che non è un caso.

Con questo modo di ragionare sul banco degli imputati non finisce il modo di produzione capitalistico con tutte le sue sfaccettature e contraddizioni, bensì l’indifferenziata industrializzazione e antropizzazione. Una posizione, dunque, che giustifica quella equidistanza e quel “ne-neismo” (sempre di moda nella a-sinistra) che tanti danni sta facendo non solo alla lotta all’inquinamento ma anche all’Ucraina, alla Palestina e, prossimamente, a Formosa.

Pertanto, prima di analizzare i motivi per cui la teoria del laboratorio è al momento tutt’altro che complottista, vediamo perché è necessario inquadrare l’eventuale zoonosi – una ipotesi possibile ma ancora tutta da dimostrare per quanto riguarda l’origine del SARS-CoV-2 – come un problema legato al capitalismo e alla sua egemonia e non al mero sviluppo umano e industriale[3]. Infine, nel terzo articolo dedicato al binomio pandemia-complottismo, analizzeremo la consapevolezza del pericolo.

Come già aveva notato Marx, «ogni produzione è un’appropriazione della natura da parte dell’individuo, entro e mediante una determinata forma di società»[4]. Ma cosa significa di preciso?

«In primo luogo, il lavoro è un processo che si svolge fra l’uomo e la natura, nel quale l’uomo per mezzo della propria azione produce, regola e controlla il ricambio organico fra se stesso e la natura: contrappone se stesso, quale una fra le potenze della natura, alla materialità della natura. Egli mette in moto le forze naturali appartenenti alla sua corporeità, braccia e gambe, mani e testa, per appropriarsi dei materiali della natura in forma usabile per la propria vita. Operando mediante tale moto sulla natura fuori di sé e cambiandola, egli cambia allo stesso tempo la natura sua propria. Sviluppa le facoltà che in questa sono assopite e assoggetta il giuoco delle loro forze al proprio potere»[5].

In secondo luogo,

«il lavoro, come formatore di valori d’uso, come lavoro utile è una condizione d’esistenza dell’uomo, indipendente da tutte le forme della società, è una necessità eterna della natura che ha la funzione di mediare il ricambio organico fra uomo e natura, cioè la vita degli uomini. I valori d’uso sono combinazioni di due elementi, materia naturale e lavoro. Se si detrae la somma complessiva di tutti i vari lavori utili rimane sempre un substrato materiale, che è dato per natura, senza contributo dell’uomo. Il procedimento dell’uomo nella sua produzione può essere soltanto quello stesso della natura: cioè semplice cambiamento delle forme dei materiali. E ancora: in questo stesso lavoro di formazione l’uomo è costantemente assistito da forze naturali. Quindi il lavoro non è l’unica fonte dei valori d’uso che produce, della ricchezza materiale. Come dice William Petty, il lavoro è il padre della ricchezza materiale e la terra ne è la madre»[6].

Ma «soltanto col capitale la natura diventa un puro oggetto per l’uomo, un puro oggetto di utilità, e cessa di essere riconosciuta come forza per sé; e la stessa conoscenza teoretica delle sue leggi autonome si presenta semplicemente come astuzia capace di subordinarla ai bisogni umani sia come oggetto di consumo, sia come mezzo di produzione»[7].

Pertanto, col trionfo del modo di produzione capitalistico,

«l’estensione o la riduzione della produzione non viene decisa in base al rapporto fra la produzione ed i bisogni sociali, i bisogni di un’umanità socialmente sviluppata, ma in base all’appropriazione del lavoro non pagato ed al rapporto fra questo lavoro non pagato ed il lavoro oggettivato in generale o, per usare un’espressione capitalistica, in base al profitto ed al rapporto fra questo profitto ed il capitale impiegato, vale a dire in base al livello del saggio del profitto. [Pertanto, la produzione] si arresta non quando i bisogni sono soddisfatti, ma quando la produzione e la realizzazione del profitto impongono questo arresto»[8].

In altre parole,

«il vero limite della produzione capitalistica è il capitale stesso, è questo: che il capitale e la sua autovalorizzazione appaiono come punto di partenza e punto di arrivo, come motivo e scopo della produzione; che la produzione è solo produzione per il capitale, e non al contrario i mezzi di produzione sono dei semplici mezzi per una continua estensione del processo vitale per la società dei produttori. I limiti nei quali possono unicamente muoversi la conservazione e l’autovalorizzazione del valore-capitale che si fonda sull’espropriazione e l’impoverimento della grande massa dei produttori, questi limiti si trovano dunque continuamente in conflitto con i metodi di produzione a cui il capitale deve ricorrere per raggiungere il suo scopo e che perseguono l’accrescimento illimitato della produzione, la produzione come fine a se stessa, lo sviluppo incondizionato delle forze produttive sociali del lavoro. Il mezzo – lo sviluppo incondizionato delle forze produttive sociali – viene permanentemente in conflitto con il fine ristretto, la valorizzazione del capitale esistente. Se il modo di produzione capitalistico è quindi un mezzo storico per lo sviluppo della forza produttiva materiale e la creazione di un corrispondente mercato mondiale, esso è al tempo stesso la contraddizione costante tra questo suo compito storico e i rapporti di produzione sociali che gli corrispondono»[9].

Da ciò consegue che

«il trattamento consapevole e razionale della terra come eterna proprietà comune, come condizione inalienabile di esistenza e di riproduzione della catena delle generazioni umane che si avvicendano, viene rimpiazzato dallo sfruttamento, dallo sperpero delle energie della terra (a prescindere dal fatto che lo sfruttamento viene fatto dipendere, non dal livello raggiunto dallo sviluppo sociale, ma dalle condizioni casuali e disuguali dei singoli produttori). Nella piccola proprietà ciò avviene per mancanza di mezzi e di conoscenze scientifiche necessari all’impiego della forza produttiva sociale del lavoro. Nella grande proprietà ciò avviene per lo sfruttamento di questi mezzi ai fini dell’arricchimento più rapido possibile dell’affittuario e del proprietario. In ambedue, per la dipendenza dal prezzo di mercato»[10].

«Ma la dipendenza dalle oscillazioni dei prezzi di mercato, nella quale si trova la coltura dei particolari prodotti della terra, e la continua trasformazione di questa coltura in armonia con queste oscillazioni di prezzo, tutto lo spirito della produzione capitalistica, che è orientato verso il guadagno rapido e immediato, sono in opposizione con l’agricoltura, che deve tenere presenti tutte le permanenti condizioni di vita delle generazioni che si susseguono»[11].

Pertanto,

«in una società in cui i singoli capitalisti producono e scambiano solo per il profitto immediato, possono essere presi in considerazione solo i risultati più vicini, più immediati. Il singolo industriale o commerciante è soddisfatto se vende la merce fabbricata o comprata con l’usuale profittarello e non lo preoccupa quello che in seguito accadrà alla merce o al compratore. Lo stesso si dica per gli effetti di tale attività sulla natura. Prendiamo il caso dei piantatori spagnoli a Cuba, che bruciarono completamente i boschi sui pendii e trovarono nella cenere concime sufficiente per una sola generazione di piante di caffè altamente remunerativa. Cosa importava loro che dopo di ciò le piogge tropicali portassero via l’ormai indifeso humus e lasciassero dietro di sé solo nude rocce? Nell’attuale modo di produzione viene preso prevalentemente in considerazione, sia di fronte alla natura che di fronte alla società, solo il primo, più palpabile risultato. E poi ci si meraviglia ancora che gli effetti più remoti delle attività rivolte a un dato scopo siano completamente diversi e perlopiù portino allo scopo opposto»[12].

Ecco perché il salto di specie effettuato da un virus non è soltanto un fenomeno naturale, ma anche, se non soprattutto, un fenomeno legato non all’industrializzazione in sé e per sé, quanto alle relazioni sociali che governano e indirizzano tale industrializzazione. Vale a dire, al tipo di società che consente alle imprese il libero sfruttamento della natura senza tener conto delle sue leggi immanenti. Al contrario, in una società industrializzata che ne fosse maggiormente rispettosa, vale a dire meno libera di sfruttare la natura a proprio piacimento ma soltanto nel rispetto delle sue leggi di funzionamento (che poi sono anche le nostre)[13] ciò accadrebbe molto meno e saremmo molto più preparati ad affrontare questo tipo di problemi. Quindi saremmo in realtà più liberi di servirci della natura, in quanto emancipati quantomeno dalle negative conseguenze necessariamente derivanti dal suo sfruttamento arbitrario e irrazionale.

Nel prossimo articolo vedremo perché la fuoriuscita del SARS-CoV-2 da un laboratorio è tutt’altro che complottismo.

[1] A. Lolli, Il complottismo non esiste o Miseria dell’anticomplottismo, incluso in: M. A. Polesana – E. Risi (a cura di), (S)comunicazione e pandemia. Ricategorizzazioni e contrapposizioni di un’emergenza infinita, Mimesis, Milano 2023.

[2] Questa e le citazioni che seguono sono tratte da Aneta Afelt – Roger Frutos – Christian Devaux, Bats, Coronaviruses, and Deforestation: Toward the Emergence of Novel Infectious Diseases?, in «Fontiers in Microbiology», 11 aprile 2018, doi: 10.3389/fmicb.2018.00702.

[3] Le considerazioni che seguono sono tratte da A. Bartoloni, Critica marxista della vaccinazione COVID, Transeuropa, cap. 2.

[4] Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica: 1857-1858, vol. I, “Produzione, consumo, distribuzione, scambio (circolazione)”, La Nuova Italia, p. 10.

[5] Karl Marx, Il capitale, I, Editori Riuniti, pp. 211-212.

[6] Ibid., p. 75.

[7] Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica: 1857-1858, vol. I, “Produzione, consumo, distribuzione, scambio (circolazione)”, La Nuova Italia, p. 11.

[8] Karl Marx, Il capitale, III, Editori Riuniti, p. 312.

[9] Ibid., p. 303.

[10] Ibid., p. 925.

[11] Ibid., p. 716, nota 27.

[12] Friedrich Engels, Dialettica della natura, in Opere complete, vol. XXV, Editori Riuniti, p. 470.

[13] «Ad ogni passo ci viene ricordato che noi non dominiamo la natura come un conquistatore domina un popolo straniero soggiogato, che non la dominiamo come chi è estraneo ad essa, ma che noi le apparteniamo con carne e sangue e cervello e viviamo nel suo grembo: tutto il nostro dominio sulla natura consiste nella capacità che ci eleva al di sopra delle altre creature, di conoscere le sue leggi e di impiegarle in modo appropriato». Friedrich Engels, Dialettica della natura, “Parte avuta dal lavoro nel processo di umanizzazione della scimmia”, in Opere complete, vol. XXV, Editori Riuniti, p. 468.

 

1 Comment

  1. Fulvio Baldini ha detto:

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