PERCHÉ LA GUERRA FA MALE ALL’ECONOMIA (1/3)

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PERCHÉ LA GUERRA FA MALE ALL’ECONOMIA (1/3)

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PERCHÉ LA GUERRA FA MALE ALL’ECONOMIA (1/3)

Di Alessandro Bartoloni

 

Che la guerra faccia bene all’economia sembra essere diventata una verità talmente evidente che non ha bisogno di essere dimostrata. Le commesse militari hanno una ricaduta positiva non solo in termini occupazionali ma più in generale su tutto il tessuto produttivo civile grazie all’indotto. Per non parlare dei benefici che tali spese apportano allo sviluppo tecnologico. Scopo di questo articolo e di quelli che lo seguiranno (per un totale di tre) è dimostrare che ciò non è vero e che la produzione bellica fa male non solo ai lavoratori ma anche all’economia nel suo complesso.

 

Le basi empiriche dell’equivoco

 

La tesi dei benefici economici della guerra sembra avere solide basi empiriche. Negli Stati Uniti, ad esempio, il 3,7% del prodotto interno lordo del 2022 è riconducibile alle spese per la difesa, le quali hanno contribuito a quasi il 6% della crescita registrata nel terzo trimestre del 2023 (+4,9% secondo le stime preliminari). Questo senza contare il fatto che alcuni analisti credono che il budget reale per la difesa sia il doppio di quanto ufficialmente dichiarato (1.537 miliardi di dollari vs 766).C’è poi da considerare il ritorno indiretto nei singoli settori strategici, come ad esempio l’esportazione di GPL. La Francia, che nel 2021 importava dagli USA 170 miliardi di piedi cubi di gas, nel 2022 ne ha dovuti acquistare oltre 571, con un incremento del 235%. Non è andata molto meglio al Regno Unito, che è passato da 195 a 464 miliardi (+138%), né all’Olanda (da 174 a 378, +117%). Ancora peggio all’Italia, che è passata da 34 miliardi a 116, facendo registrare un incremento del 239%. Un risultato secondo soltanto a quello del Belgio, che si è visto recapitare oltre 80 miliardi di piedi cubi di gas a fronte dei 5,5 importati l’anno precedente (+1.337%). Perfino la Germania che non ha mai importato GPL dagli USA, nel 2022 ne ha dovuti comprare oltre 7 miliardi. Difficile credere che queste esportazioni sarebbero state possibili senza la guerra in Ucraina e le sanzioni alla Russia.

Per quanto riguarda gli armamenti destinati ai civili, il giro d’affari è minore ma non meno impressionante. Le aziende che negli Stati Uniti producono, distribuiscono e vendono armi da fuoco, munizioni e attrezzature da caccia impiegano 172.697 persone e creano ulteriori 220.999 posti di lavoro tra i fornitori e le industrie ausiliarie. Lavoratori che, nel solo 2022, hanno generato un giro di affari pari a 80 miliardi di dollari.

Per quanto riguarda la Federazione Russa, le cose non sembrano andare in maniera molto diversa. Dopo l’iniziale shock dovuto alle sanzioni, che ha comportato una recessione nel 2022 pari al 2,1%, l’economia ha cominciato a marciare a pieno regime. Ciò ha ridotto la disoccupazione al 3%, mai così bassa da quando il paese è entrato nel novero delle potenze capitaliste, e ha stimolato la crescita economica. Tanto che il Fondo monetario internazionale ha rivisto al rialzo le previsioni per il PIL 2023 al 2,2%, rispetto al +1,5% stimato a luglio. Un incremento dovuto a «un sostanziale stimolo fiscale, forti investimenti e consumi resilienti nel contesto di un mercato del lavoro ristretto».

Ben diversa la sorte per l’Ucraina, che ha visto il PIL crollare del 29,1% nel 2022, una cifra che fa impallidire il -3,8% sofferto durante il primo anno di pandemia. Un crollo che è continuato nel primo trimestre del 2023 (-10,5% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente) ma che sembrerebbe essersi arrestato. Se non altro nelle ottimistiche previsioni occidentali, che le assegnano un complessivo 2% di crescita per l’anno in corso.

Crisi economica che attanaglia anche Israele, a conferma che quando la guerra ce l’hai in casa le cose per la tua economia potrebbero non andare poi così bene. Se non altro nell’immediato. Come riferisce Kit Klarenberg, secondo il Financial Times la guerra ha devastato migliaia di aziende, molte delle quali sono sull’orlo del collasso. I dati citati dall’Ufficio centrale di statistica israeliano rivelano che un’azienda su tre ha chiuso o sta operando al 20% della capacità. Più della metà delle imprese ha subito perdite di fatturato superiori al 50%. Il ministero del Lavoro riferisce che 764.000 cittadini, quasi un quinto della forza-lavoro israeliana, sono senza lavoro a causa delle evacuazioni (250.000 persone), della chiusura delle scuole e della chiamata di circa 360.000 riservisti. E per colpa della guerra a Gaza, molti progetti edilizi israeliani si sono temporaneamente fermati perché basati sullo sfruttamento della manovalanza palestinese. Più in generale, secondo Bloomberg, la guerra di Gaza è costata all’economia israeliana quasi 8 miliardi di dollari, con ulteriori 260 milioni di dollari di perdite ogni giorno che passa. Ciononostante, Netanyahu ha promesso di portare il paese verso un’economia di guerra e di aprire i rubinetti, pompando denaro a chiunque ne abbia bisogno.

In poche parole, sembrerebbe che la terza guerra mondiale stia producendo effetti diversi a seconda della posizione del paese e del momento. Ciononostante, al netto delle perdite di qualcuno, in primis i paesi europei, la visione dominante, anche tra i compagni, è che i conflitti armati permetterebbero un complessivo rilancio dell’economia. Una credenza suffragata dal punto di vista teorico, in particolare dai keynesiani, gli ideologi dominanti nella sinistra che fu radicale e ancor prima comunista.

 

Le basi teoriche dell’equivoco

 

L’approccio keynesiano vede nelle spese militari una forma di spesa pubblica per il superamento della crisi. Una delle tante manifestazioni del deficit spending, ossia un modo attraverso cui lo Stato stimola l’economia indebitandosi. Per chi la pensa così, il problema economico principale è rappresentato dalla scarsità di domanda (consumi e investimenti) rispetto all’offerta (beni e servizi prodotti). Dunque, occorre tagliare le tasse in modo da aumentare il reddito disponibile che famiglie e imprese possono destinare a maggiori consumi e investimenti. Se ciò non dovesse bastare, occorre affiancare alla domanda di beni e servizi proveniente dai soggetti privati una domanda effettuata dalle autorità pubbliche. Se neanche gli stimoli alla spesa dovessero bastare occorre stimolare direttamente la produzione mediante la regolamentazione del settore privato e il salvataggio delle industrie in crisi, con relativo risanamento e rilancio posti a carico della fiscalità generale. In pratica, le tanto temute nazionalizzazioni.Passata la crisi, è possibile ridurre la spesa pubblica e ripagare i debiti mediante le maggiori entrate fiscali generate dalla crescita economica. In sintesi, durante la crisi la cosiddetta austerity (il rigore di bilancio) rappresenta una terapia che aggrava le condizioni del paziente. Tutto molto semplice e apparentemente bello. Peccato, però, che le cose vadano diversamente.

Per finanziare i consumi privati (C) e gli investimenti privati (I) occorre aumentare rispettivamente i salari (W) e i profitti (P). In termini formali significa che C + I = W + P (da una parte gli impieghi, dall’altra le risorse). Se per semplicità assumiamo che il salario è speso totalmente in mezzi di consumo (C = W), non rimane altro che il profitto per generare gli investimenti (I = P). Ma come ci spiega Michael Roberts, «per Keynes, è l’investimento a creare profitto. E cosa determina gli investimenti? Le decisioni soggettive dei singoli imprenditori. E cosa influenza le loro decisioni? Gli “spiriti animali”, oppure le diverse aspettative di ritorno sull’investimento. Si torna così all’approccio soggettivo della scuola neoclassica».

Per evidenziare meglio le conseguenze di questo modo di ragionare, ipotizziamo la presenza del risparmio (salario non consumato, cioè W > C). Invece di avere profitti = investimenti (P = I) avremmo profitti + risparmi = investimenti (P + S = I). Un’equazione che può essere letta anche come profitti = investimenti – risparmi (P = I – S). In pratica, più ci si indebita (risparmio negativo) più i profitti crescono. Ma, come ci ricorda sempre Roberts, il risparmio non è soltanto quello delle famiglie, c’è anche quello del governo e il risparmio dei capitalisti stranieri. «Se le famiglie risparmiano di più (come tendono a fare nei periodi di crisi) e il risparmio estero aumenta (in altre parole aumenta il deficit dell’economia nazionale con il resto del mondo), allora gli investimenti saranno inferiori e così anche i profitti. Esiste però un salvatore: il risparmio pubblico, o per essere più precisi, il risparmio del governo. Se il governo accumula un grosso deficit di bilancio, in altre parole, registra perdite, può stimolare gli investimenti e quindi i profitti».

Attenzione, però, questo non significa che le politiche keynesiane guardino con favore all’aumento dei consumi delle famiglie, e quindi all’aumento dei salari che li finanziano. Al contrario, le buste paga devono essere ridotte, direttamente o indirettamente attraverso l’inflazione. Non a caso, nella prefazione all’edizione tedesca della sua Teoria generale pubblicata nel 1936, Keynes scrisse testualmente che «la teoria della produzione nel suo insieme, che è ciò che il libro seguente intende fornire, si adatta molto più facilmente alle condizioni di uno stato totalitario». Più chiaro di così…

Pertanto, il keynesismo ci insegna che l’economia può essere sostenuta da una maggiore spesa pubblica, non da una sua riduzione. Tutto il contrario di quanto fanno la maggior parte dei governi dei paesi capitalisti. Come mai?

La risposta non sta nel fatto, per altro innegabile, che le istituzioni politico-burocratiche sono infarcite di ordoliberisti. Né che vi siano all’opera fantomatici cripto-comunisti che lavorano per il collasso del sistema. Molto semplicemente, i governi attuano il rigore di bilancio perché ciò conviene alla classe padronale nel suo complesso. Per capirlo, occorre considerare che non sono gli investimenti a creare profitto bensì il contrario. È il profitto a creare gli investimenti. Dunque, «sono gli investimenti che dipendono dal profitto. E il profitto dipende dallo sfruttamento della forza-lavoro e dalla sua appropriazione da parte del capitale. Abbiamo quindi un’analisi causale oggettiva basata su una forma specifica di società di classe, e non un’analisi basata su una psicoanalisi mistica del comportamento umano individuale. La direzione causale keynesiana (i profitti dipendono dagli investimenti) porta a una comprensione distorta delle leggi del movimento del capitalismo» (M. Roberts).

Questo modo di vedere le cose ha profonde implicazioni pratiche. L’equazione profitti = investimenti – risparmi (P = I – S) diventa investimenti = profitti + risparmi (I = P + S). Se i profitti sono fissi e non possono essere aumentati (anzi, durante le crisi diminuiscono), allora gli investimenti non possono essere aumentati. «Quindi, l’investimento capitalista (cioè l’investimento per un profitto) ora dipende dalla limitazione degli investimenti non capitalisti, vale a dire degli investimenti pubblici. Quindi, il capitalismo ha bisogno di più risparmio pubblico, non di meno risparmio. In effetti, è l’opposto della conclusione politica keynesiana. Quindi l’intervento del governo è negativo per gli investimenti capitalisti» (M. Roberts).

In sintesi, per favorire la crescita capitalista le uscite dalle casse dello Stato (spesa pubblica) devono essere minori delle entrate (tassazione). Si tratta del cosiddetto “avanzo primario” che però, lungi dallo stimolare gli investimenti privati, viene dirottato verso il pagamento degli interessi sul debito. In pratica, serve a garantire il trasferimento di risorse da chi lavora a chi specula.

Questo non significa, ovviamente, che l’intervento del governo (ancorché padronale) sia sempre inutile o addirittura dannoso al proletariato. Ma di questo ci occuperemo nel prossimo articolo, dove analizzeremo la natura della spesa pubblica.

 

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1 Comment

  1. Fulvio Baldini ha detto:

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