IN PRINCIPIO FU IL LAVORO

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IN PRINCIPIO FU IL LAVORO

 

di Loredana Massaro

 

L’entrata in emergenza Covid a partire dallo scorso anno ha avuto come prima conseguenza i relativi decreti sull’utilizzo del lavoro agile, la cassa integrazione, le forme di sostegno, i sussidi e altre possibilità di fronteggiare la situazione. Solo qualche mese dopo la stampa portò all’attenzione di tutti un problema che avrebbe fatto da specchio a quelli dell’intera nostra società: il lavoro femminile. Sono state le donne le prime a dover fare i conti con il virus, le prime ad essere licenziate, le prime a vedere ridotti orari e stipendi, le prime a doversi organizzare in casa tra smart working e lavoro domestico, a sobbarcarsi il lavoro di cura della famiglia intera, la scuola chiusa e le lezioni a distanza, i genitori anziani, le code per la spesa, per la farmacia e per il medico.

Dalla storia risulta che le donne hanno sempre lavorato di più, le contadine restavano nei campi più ore rispetto agli uomini, a casa continuavano a lavorare, una maggiore empatia e una decisiva competenza emotiva fanno anche oggi delle donne le migliori candidate a farsi carico degli altri, tutto lavoro non pagato che all’Italia fa risparmiare una spesa enorme visto che welfare e stato sociale stanno diventando un lusso che il nostro paese gravato dal debito europeo non può più permettersi.

I problemi del lavoro declinato al femminile sono sempre gli stessi, primo fra tutti l’accesso infatti lavorano più uomini che donne, l’Italia è il fanalino di coda europeo in fatto di percentuale di donne lavoratrici (sommerso a parte). Si stima che la proporzione arrivi al 50% ed è un numero che a guardarlo bene, sottolinea il fatto che le società capitalistiche a conduzione maschile, sanno utilizzare a proprio vantaggio stereotipi e luoghi comuni intorno alla differenza di genere, che vuole le donne a casa ad occuparsi del lavoro domestico, della famiglia, dei figli, del partner, finendo per rinforzarli con una tale rigidità ideologica alla quale uomini e donne si adeguano e il capitalismo ci guadagna. Una vera e propria manipolazione delle coscienze.

Negli ultimi trent’anni i passi per ridurre la differenza nei tassi di occupazione tra uomini e donne non hanno avuto un esito significativo: il gap, segnala l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Ilo), si è ridotto di meno di due punti percentuali rispetto al 1991 e, nel 2018, si è assestato al 26%. Significa che, a livello globale, le donne che lavorano sono un quarto in meno degli uomini. Le donne con un impiego pagato sono il 45,3% della popolazione femminile totale; gli uomini il 66,5%. La differenza tra queste due percentuali però non è uguale al 26% richiamato prima perché, nel mondo, le persone di sesso femminile sono più dei maschi.

Dobbiamo inoltre chiederci, l’accesso a quale lavoro? Siamo stati tutti indottrinati a pensare che le donne siano adatte ad alcuni lavori e gli uomini ad altri, siamo cresciuti così, abbiamo alle spalle una storia dove questo era un dato di fatto indiscutibile, fondato su elementi naturali e giuridici e mai messo in discussione. L’emancipazione e i processi di autonomia e indipendenza delle donne sono solo storia recentissima. Facciamo qualche esempio. Maria Montessori (Chiaravalle, 1870 – Noordwijk, 1952) educatrice, pedagogista, filosofa, medico, neuropsichiatra infantile e scienziata italiana, fu tra le prime donne a laurearsi in medicina in Italia, siamo agli inizi del Novecento. Rita Levi-Montalcini (Torino, 1909 – Roma, 2012), neurologa, accademica e senatrice a vita, Premio Nobel per la medicina nel 1986, siamo ancora ai primi del Novecento. Letizia De Martino a soli 27 anni è la prima donna giudice d’Italia. Siamo nel 1964. Sposata e madre di due bambini piccolissimi, trova il tempo di studiare e prepararsi al concorso per entrare in Magistratura. È tra le otto donne che superano il primo concorso da magistrato non riservato a soli uomini.

Ancora un po’ di storia ma stavolta per un racconto diverso. In Russia nel marzo del 1917 il governo provvisorio, che aveva sostituito l’autocrazia di Nicola II, ha concesso alle donne russe il diritto di voto e di presiedere un ufficio politico: è la prima riforma effettuata dal nuovo partito al potere. Le donne in Unione Sovietica sono diventate parte fondamentale della forza-lavoro del paese e sono quindi entrate in settori precedentemente irraggiungibili; hanno così avuto maggiori opportunità di istruzione, sviluppo personale e formazione. Ricordiamo, come esempio, Aleksandra Michajlovna Kollontaj, nominata dopo la vittoria della Rivoluzione, «commissaria del popolo» (cioè ministra) per l’assistenza sociale, prima donna al mondo ad essere membro di un governo, poi prima ambasciatrice al mondo.

Le donne ora in Unione Sovietica potevano acquisire i propri diritti di liberazione attraverso la concessione dell’accesso al campo produttivo: il numero di donne che entravano nella forza lavoro è passato da 423.200 nel 1923 a 885 mila nel 1930. Per raggiungere questo significativo aumento femminile nella forza lavoro, il nuovo governo comunista emise il suo primo codice familiare che separò il matrimonio dalla Chiesa, permise ad ogni coppia di scegliere un cognome, concesse ai figli illegittimi gli stessi diritti degli altri, promosse i diritti di maternità, la protezione sanitaria e la sicurezza sul lavoro ed infine ha permise alle donne il diritto al divorzio. Nel 1920 il governo sovietico legalizzò l’aborto. Anche nella legislazione sul lavoro le donne ottennero uguali diritti in materia assicurativa in caso di malattia, il congedo di maternità retribuito e uno standard di salario minimo fissato uguale per uomini e donne. Fu concesso anche un congedo di vacanza retribuito. Per sovraintendere a questo codice e alla libertà delle donne il partito comunista creò un dipartimento specializzato femminile chiamato Ženotdel. Il dipartimento produsse una propaganda che incoraggiava un numero sempre maggiore di donne a far parte della popolazione urbana e del partito rivoluzionario comunista.

Torniamo ad oggi, la scelta lavorativa dipende molto anche dall’istruzione ricevuta. La scuola per le bambine e le ragazze è fattore imprescindibile per la loro emancipazione e lo sarebbe anche per quella di una nazione come l’Italia, per tanti versi ancora arretrata, che si dovrebbe fare carico di una politica aperta alla vera crescita e non agli interessi personali. L’apporto dell’ingegno e del lavoro delle donne in tutti i campi può in questi casi fare davvero la differenza. Le donne rappresentano il pensiero di una cultura “altra o diversa” dalla quale sola possiamo sperare in una rinascita. In una vera “rivoluzione”. Non si tratta di fare la guerra, anzi, non ritengo debba esserci un necessario conflitto tra i sessi, la collaborazione e il senso di solidarietà sono sempre auspicabili; è insieme, all’interno di un sincero confronto e di una crescita reciproca, che si progetta un futuro migliore. La differenza di genere deve essere vista come arricchimento e non come prevaricazione degli uni sulle altre.

 

Veniamo al welfare l’unico in grado di aiutare nel conciliare tempi di lavoro e tempi di cura, non solo per le donne ma per tutti, è un’acquisizione indiscussa della nostra democrazia, che succede se si continua a tagliare i finanziamenti? Abbiamo visto con il Covid che cosa ha portato la mancanza di posti letto in terapia intensiva, ha significato entrare in zona rossa e fermare il lavoro e l’economia, la difficoltà di comprare i vaccini dalle case farmaceutiche, la difficoltà di mandare bambini e ragazzi a scuola (se solo le aule fossero state più ampie), ha significato disoccupazione e spesa per cassa integrazione e sussidi, chiusura di tutte le risorse culturali (biblioteche, musei, tempo libero); senza indugiare troppo sul senso di pietas verso le classi sociali meno abbienti, si potrebbe far leva sugli interessi del capitalismo stesso.

Si potrebbe obiettare che esistono donne che risulta difficile posizionare nella sfera dello sfruttamento, sono quelle donne che appartengono a classi sociali molto elevate, sono quelle donne che hanno patrimoni personali ingenti, guadagnano tantissimo, ricoprono ruoli chiave per esempio nelle imprese e nella politica e hanno la possibilità di prendere decisioni a danno dei lavoratori e delle lavoratrici.

E il nuovo governo? Il neonominato presidente del consiglio Mario Draghi afferma di non amare troppo le “quote rosa”, infatti nella formazione del governo, ha strettamente rispettato il 30% voluto dalla legge, ha detto inoltre che il problema delle donne sul lavoro è un fatto di scelta tra “lavorare o dedicarsi alla famiglia”. Così magari si risparmierebbero per intero i costi dello stato sociale, perché il lavoro delle donne a casa è gratuito e pazienza per l’autonomia e l’indipendenza delle italiane!

Quanto coraggio ci vuole per una donna decidere di avere figli. È ancora conveniente avere una famiglia? Per gli algoritmi delle grandi multinazionali mondiali una famiglia costituisce in termini di consumo un valore diciamo pari 1, mentre un single consuma in rapporto un valore pari a 1,3. Allora si vuole forse disgregare l’istituzione famiglia? Non era uno dei pilastri fondamentali del capitalismo universale?

Secondo la concezione materialistica della storia, i rapporti capitalistici di produzione condizionano profondamente le istituzioni e in modo particolare la famiglia. La critica condotta dal marxismo al modo di produzione capitalistico coinvolge direttamente la famiglia, così come essa si presenta nella società borghese:

«La moderna famiglia singola è fondata sulla schiavitù domestica della donna, aperta o mascherata, e la società moderna è una massa composta nella sua struttura molecolare da un complesso di famiglie singole. Al giorno d’oggi l’uomo, nella grande maggioranza dei casi, deve essere colui che guadagna, che alimenta la famiglia, per lo meno nelle classi abbienti; il che gli dà una posizione di comando che non ha bisogno di alcun privilegio giuridico straordinario. Nella famiglia egli è il borghese, la donna rappresenta il proletario» (Engels, L’origine della famiglia della proprietà privata e dello Stato).

La crisi della famiglia borghese si inserisce secondo il marxismo nel più generale processo di disgregazione dei rapporti umani, chiamato alienazione, che è caratteristico della società borghese. Nell’ analizzare i fenomeni collegati con la nascita della grande industria, che ha comportato l’inserimento, spesso coatto, delle donne e dei bambini nel processo produttivo, Marx afferma che la critica delle istituzioni sociali borghesi, e in particolare della famiglia, si pone nella prospettiva di un superamento delle condizioni materiali che fanno della famiglia borghese un’istituzione “oppressiva”, in cui si riproducono, in forma mistificata, i rapporti capitalistici di produzione. La nuova funzione sociale svolta dalla donna nel capitalismo ha inoltre posto le premesse per il sorgere di un movimento di liberazione (Questione femminile), che affronta non soltanto i problemi generati dalla posizione occupata dalla donna nell’organizzazione capitalistica della produzione, ma anche i problemi creati dalla famiglia e in generale dal rapporto uomo-donna.

In principio fu il lavoro dunque il primo elemento di emancipazione femminile. Da un lato le donne hanno fatto molti passi avanti nell’emanciparsi da un tipo di istituzione stabilita durante la costruzione borghese della società, dall’altra l’inserimento nel mondo del lavoro ha proceduto nei decenni con notevole difficoltà. Ostacoli e battute d’arresto non sono mancati. Dobbiamo togliere una divisa che ci è stata tagliata a misura e che ormai ci sta troppo stretta… lo devono fare uomini e donne, abbandonare un ruolo sessuale che è stato costruito su conformismo e regole passate, dobbiamo vestire in modo più autentico pur nella differenza di genere.

Un ruolo cruciale lo riveste la cultura, non quella con la “C” maiuscola ma quella che sapremo costruire in solidarietà tutti i giorni, attraverso uno scambio di saperi reciproci, perché mi sembra che stiamo perdendo l’opportunità più importante della nostra vita: l’incontro “vero” con l’altro.

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