PERCHÉ LA GUERRA FA MALE ALL’ECONOMIA (2/3)

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PERCHÉ LA GUERRA FA MALE ALL’ECONOMIA (2/3)

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PERCHE’ LA GUERRA FA MALE ALL’ECONOMIA (2/3)

di Alessandro Bartoloni

 

Nell’articolo precedente abbiamo visto che per favorire gli investimenti capitalisti il governo deve risparmiare invece che indebitarsi.Ciò significa che il sistema capitalistico ha bisogno che le entrate tributarie ed extra-tributarie siano maggiori delle spese correnti e d’investimento, non viceversa.

Ciononostante, anche i più strenui paladini dello “Stato minimo” riconoscono l’impossibilità di azzerare completamente il bilancio pubblico. Se non altro perché ci sono attività necessarie alla sopravvivenza del capitale o all’incremento della sua produttività che non rendono abbastanza denaro per essere intraprese da imprenditori singoli o associati.

Si pensi, ad esempio, alla difesa o alla costruzione delle strade. Inoltre, fornendo servizi gratuiti o quasi ai lavoratori (salario indiretto sotto forma di istruzione, sanità, alloggi popolari ecc.), lo Stato sgrava il padronato di una parte dei costi necessari ad acquistare la forza-lavoro.

Se non lo facesse, il lavoratore dovrebbe ricevere più soldi in busta paga per poter comprare quei mezzi di sussistenza sul mercato.

Pertanto, occorre verificare se le spese militari – cibo, armi e attrezzature per le forze armate e gli apparati di polizia – siano, dal punto di vista economico, più o meno convenienti rispetto alle altre spese pubbliche (opere civili e servizi sociali). Ma per farlo, occorre abbandonare l’analisi economica dominante.

Gli economisti mainstream si fermano al fatto che il capitalista cerca di ottenere un profitto, indipendentemente dal carattere produttivo del lavoro che sfrutta. Quindi, indipendentemente dal fatto che tale lavoro produca o meno plusvalore, concetto a loro sconosciuto.

Da ciò consegue tutta una serie di controsensi. Come la credenza che lo Stato più consuma (e spreca) più farebbe aumentare il PIL. Oppure che la guerra e le catastrofi naturali rappresentino uno stimolo all’economia.

Ma ove anche procedessimo al ribaltamento logico suggerito nel primo articolo, le categorie dominanti non consentono di cogliere la differenza tra un miliardo investito per costruire un ponte e un miliardo investito per costruire i missili che lo abbattono.

In entrambi i casi si tratterebbe di un miliardo che produce ricchezza, soltanto in due forme diverse.

 

I. La natura della spesa pubblica

 

Per capire il motivo per cui la produzione di missili rappresenta una distruzione di ricchezza ancorché vengano prodotti capitalisticamente occorre analizzare la natura della spesa pubblica. I denari con cui lo Stato finanzia i propri acquisti sono prelevati per lo più tassando i redditi delle persone fisiche o quelle delle persone giuridiche (in forma diretta o indiretta).

In entrambi i casi, si tratta di un trasferimento di ricchezza.

Si tratta di una sottrazione di valore quando a pagare sono i salariati, di plusvalore quando a pagare sono i capitalisti.

Nel primo caso, diminuiscono i fondi a disposizione per il consumo individuale dei mezzi di sussistenza necessari al mantenimento e alla riproduzione della forza-lavoro.

Nel secondo caso, diminuiscono i fondi a disposizione per il consumo individuale di lusso, quando ad essere tassato è il reddito del capitalista o delle altre classi che traggono il loro sostentamento dal plusvalore.

Al contrario, se ad essere tassato è direttamente il “reddito d’impresa”, vale a dire la quota di plusvalore destinata ad essere reinvestita, allora diminuiscono i fondi destinati ad acquistare i mezzi di produzione (inclusa la forza-lavoro) e quindi ad allargare la base produttiva.

In poche parole, quando lo Stato si appropria di una parte del reddito delle persone fisiche (salari e guadagni che l’imprenditore intasca per il proprio mantenimento) aumentano i consumi collettivi a scapito di quelli individuali; quando si appropria del plusvalore (profitto, interessi, dividendi, ecc.) aumentano i consumi collettivi a scapito degli investimenti capitalistici.

Pertanto, nel complesso, aumentano i consumi (collettivi) a scapito degli investimenti (privati), cioè i consumi improduttivi a danno di quelli produttivi.

Questo perché le merci acquistate dagli enti pubblici che si finanziano tramite imposte non entrano in un processo produttivo di plusvalore ma in un processo produttivo di semplici valori d’uso. In altri termini, dal punto di vista capitalistico, il lavoro posto alle dipendenze della pubblica amministrazione non è di tipo produttivo (di plusvalore) bensì improduttivo.

Occorre precisare che le definizioni di produttivo e improduttivo qui riportate «non sono ricavate dalle caratteristiche materiali del lavoro (né dalla natura del suo prodotto né dalla determinatezza del lavoro in quanto lavoro concreto), ma dalla forma sociale determinata, dai rapporti sociali di produzione in cui questo si realizza» (K. Marx, Teorie sul plusvalore, I, cap. 4). Approfondiamo la cosa.

 

II. Lavoro produttivo e improduttivo

 

«La produzione capitalistica non è soltanto produzione di merce, è essenzialmente produzione di plusvalore. L’operaio non produce per sé, ma per il capitale. Quindi non basta più che l’operaio produca in genere. Deve produrre plusvalore. È produttivo solo quell’operaio che produce plusvalore per il capitalista, ossia che serve all’autovalorizzazione del capitale. Se ci è permesso scegliere un esempio fuori della sfera della produzione materiale, un maestro di scuola è lavoratore produttivo se non si limita a lavorare le teste dei bambini, ma se si logora dal lavoro per arricchire l’imprenditore della scuola. Che questi abbia investito il suo denaro in una fabbrica d’istruzione invece che in una fabbrica di salsicce, non cambia nulla nella relazione. Il concetto di lavoratore produttivo non implica dunque affatto soltanto una relazione fra attività ed effetto utile, fra lavoratore e prodotto del lavoro, ma implica anche un rapporto di produzione specificamente sociale, di origine storica, che imprime al lavoratore il marchio di mezzo diretto di valorizzazione del capitale» (K. Marx, Il capitale, I, cap. 14).
Al contrario, il lavoro improduttivo
«è lavoro che non si scambia con capitale, ma che si scambia direttamente con reddito, quindi con salario o profitto. Un attore per esempio, perfino un pagliaccio, in base a queste definizioni è un lavoratore produttivo se lavora al servizio di un capitalista, al quale egli restituisce più lavoro di quanto ne riceve da lui sotto forma di salario, mentre un sartuccio che va in casa del capitalista a rammendargli i pantaloni gli procura un semplice valore d’uso, è un lavoratore improduttivo. Il lavoro del primo si scambia con capitale, quello del secondo con reddito. Il primo lavoro crea un plusvalore; nel secondo si consuma un reddito» (K. Marx, Teorie sul plusvalore, I, cap 4).

Questo permette di chiarire perché i dipendenti pubblici sono improduttivi. Essi non vengono acquistati da un capitale che si deve valorizzare bensì da reddito (pubblico) che non viene impiegato per produrre plusvalore ma per consumarlo.

«Il lavoro di alcuni dei più rispettabili ordini della società, al pari di quello dei domestici, non produce nessun valore. Il sovrano, per esempio, con tutti coloro che alle sue dipendenze ricoprono uffici giudiziari e militari, tutto l’esercito e la marina, sono lavoratori improduttivi. Essi sono i servitori della società, e sono mantenuti da una parte del prodotto annuale del lavoro di altre persone» (K. Marx, Teorie sul plusvalore, I, cap 4).

Ma se la forza-lavoro impiegata dallo Stato è improduttiva ciò non significa che le altre merci che lo Stato acquista siano necessariamente prive di plusvalore. Ciò che il cliente farà della merce al venditore non interessa. E, soprattutto, non cambia il carattere produttivo o improduttivo del lavoro che ha generato la merce acquistata. Un edificio costruito con manodopera pagata coi soldi ricavati dalle tasse non contiene alcun plusvalore.

Gli operai che lo fabbricano sono liberi e salariati come chiunque altro, tuttavia dal punto di vista economico sono in un rapporto diverso. Al contrario, un edificio costruito con manodopera sussunta al capitale contiene plusvalore. Che poi questo edificio sia acquistato da un’impresa capitalistica, un privato cittadino o un ente pubblico non muta il carattere produttivo del lavoro che l’ha generato. Il quale dipende dal fondo che lo ha impiegato, non da quello che ha acquistato la merce che produce.

Quello che cambia, dunque, è il tipo di consumo, che è di tipo produttivo quando ad acquistare l’edificio è un’azienda capitalistica che lo utilizza come mezzo di produzione; improduttivo quando è acquistato da un privato che lo utilizza come mezzo di sussistenza individuale, oppure quando è acquistato da un ente pubblico che lo utilizza per il consumo collettivo. Sempreché il prezzo pagato sia quello di mercato.

Se l’edificio non può essere venduto a un prezzo che realizzi il plusvalore prodotto, allora la sua costruzione non è per il capitale un’impresa redditizia e costruirlo non è per esso un lavoro produttivo. E il fatto che lo Stato intervenga acquistando l’edificio a un prezzo maggiore, tale da permettere al capitale che lo ha costruito di realizzare il plusvalore che altrimenti andrebbe perso, non cambia nulla alla cosa. Invece di lasciare che il lavoro oggettivato nell’edificio si svaluti, e in tal modo diventi produttivo, si procede al salvataggio trasferendo la perdita dall’impresario alla collettività.

Queste azioni di salvataggio fanno intuire perché la sottrazione mediante le imposte di una parte del fondo destinato all’allargamento della produzione (il plusvalore) e il suo impiego in attività improduttive non è sempre malvista dal padronato.

I soldi spesi dallo Stato nell’acquisto di beni e servizi rappresentano altrettante vendite, quindi trasformazioni della merce in denaro su cui profittano e speculano in molti.

Ma per la classe capitalistica nel suo complesso, la convenienza sta più che altro nella possibilità di affidare allo Stato la costruzione di opere necessarie allo sviluppo economico che gli imprenditori non possono affrontare perché sconvenienti. Si pensi, ad esempio, alla costruzione dei mezzi di circolazione e di trasporto (strade, canali, ferrovie, porti, aeroporti ecc). Queste opere rappresentano condizioni generali dell’attività produttiva che per essere costruite capitalisticamente (cioè per valorizzare il capitale investito) necessitano di un notevole sviluppo e concentrazione delle forze produttive (K. Marx, Grundrisse, II, costi di circolazione).

Lo stesso accade per l’erogazione dei servizi pubblici o sociali destinati alle persone. Istruzione, sanità, alloggi popolari ecc., rappresentano mezzi di sussistenza socialmente necessari che non sono pagati dal capitalista bensì dallo Stato. Ciò consente buste paga più leggere, in quanto l’imprenditore verrà sgravato dal pagamento di questi beni necessari al mantenimento dei lavoratori. Il salario per il lavoratore è sempre lo stesso, solamente che in questo caso una quota non viene pagata direttamente dall’impresario in busta paga ma indirettamente dalla collettività mediante le imposte che finanziano la pubblica istruzione, il Servizio sanitario nazionale ecc.

Pertanto, la creazione del cosiddetto “Stato sociale” – avvenuta statalizzando o soppiantando le iniziative caritatevoli e quelle autonome di assistenza e resistenza nate in seno alla classe lavoratrice a partire dalla seconda metà del diciannovesimo secolo (cooperative, società di mutuo soccorso, casse mutue ecc.) – è tutt’altro che disinteressata. Quando poi le imposte per finanziare tali servizi vengono prelevate per lo più dal salario e non dal plusvalore, la convenienza per la classe padronale è ancora maggiore in quanto si tratta di un trasferimento di ricchezza tutto interno alla classe lavoratrice.

Questo, ovviamente, non significa dimenticare che sono state le lotte dei lavoratori a imporre l’universalizzazione dei servizi e l’uguaglianza di trattamento (l’effettività del diritto) – in quanto al capitale interessa mantenere solamente la popolazione che può immediatamente sfruttare – e ad ampliarli oltre quel livello minimo che la classe capitalistica è disposta a elargire a seconda del particolare contesto storico-sociale e del momento economico.

Detto questo, rimane da vedere se la produzione destinata alle forze armate e alla polizia segua la stessa logica: se sia cioè una produzione contenente plusvalore – nella misura in cui è creata capitalisticamente – destinata ad essere consumata improduttivamente dallo Stato che l’acquista. O se, al contrario, le cose stiano diversamente.

Ma questo lo vedremo nel prossimo articolo.

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1 Comment

  1. Fulvio Bandini ha detto:

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