Perché governi non fanno più tagli

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Perché governi non fanno più tagli

di M. B.

 

Il leitmotiv degli slogan e delle battaglie della sinistra orfana del PCI, da diversi anni ormai, gioca sulla combinazione secondo cui, a momenti di tensione o di crisi economica, il governo risponda inevitabilmente e più o meno unicamente con tagli alla spesa pubblica. Effettivamente, nel corso degli ultimi decenni, i vari governi che si sono succeduti hanno applicato tagli o privatizzato quasi ogni lato e settore economico conosciuto. Tuttavia, alle porte del 2021, nel corso di una pandemia e di una crisi economica che non hanno precedenti, ci ritroviamo di fronte ad un fatto inedito e non minimizzabile: i governi stanno ricominciando a spendere e a investire.

Di fronte a una tale evidenza (supportata da un piano di investimenti europeo – il Recovery Fund – che ammonta per l’Italia a circa il 10% del PIL nazionale; deficit di bilancio che lievitano fino al 9% del PIL) l’opposizione dei tagli può soltanto ammutolire o essere facilmente liquidata.  Una parte di questa si fa ammaliare da questa inversione totale di rotta, potendo osservare che effettivamente è con i governi di Conte che si è tornati ad allargare la spesa pubblica. Un’altra parte ancora, invece, accoglie a braccia aperte questi piani di spesa, rievocando i vecchi fasti del piano Marshall, del boom economico e delle politiche keynesiane, spianando la strada a moderne e innovative formulazioni del keynesismo (la MMT in primis). Si potrebbe pensare che le condizioni materiali siano simili a quelle già viste nel secondo dopoguerra, e addirittura che la classe politica al potere (da Conte ai vertici europei) abbia cambiato idea ed abbia abbandonato i cattivi pregiudizi verso l’interventismo statale in economia.

È impossibile, però, pensare che questa classe politica sia stata folgorata sulla via di Damasco dalla pandemia e si sia convertita ad un sistema di politiche economiche incentrate sulla spesa pubblica e sull’interventismo statale diretto (cosa che comunque non offrirebbe nulla se non cure palliative alle storture del capitalismo). Piuttosto bisogna osservare che, a differenza della crisi del 2008, ad essere messo in ginocchio è soltanto il lato dell’economia reale e non il sistema dei mercati finanziari, i quali sono soggetti sì ad un periodo di turbolenza ma sono forti e stabili nel complesso. Ed è proprio la sicurezza del sistema bancario e finanziario a permettere e rendere convenienti politiche basate sull’allargamento della spesa pubblica (attraverso, ad esempio, tassi di interesse sui titoli di stato vicini o addirittura sotto allo zero). Del resto pensiamo che questa verrà fatta completamente a debito degli stati verso il sistema finanziario, debiti che dovranno essere in parte direttamente ripagati, ma anche quelli che vengono definiti “a fondo perduto” graveranno sul bilancio europeo e quindi in definitiva pro quota sui bilanci nazionali (v. qui e qui). E ciò non potrà che aumentare il dominio della finanza sull’economia.

Non sono, dunque, i politici e il capitale in generale ad essere più buoni e magnanimi: è la possibilità di accedere a ricette economiche che attenuano la crisi, anche di consenso, e aumenteranno alla fine la dipendenza dal potere finanziario, ad aver fatto partorire piani come il Recovery Fund. È straordinario il volano che queste misure costituiranno per incrementare la concentrazione monopolistica a favore di settori ad elevata intensità di capitale.

Inoltre, pensandoci bene, alcune delle condizioni materiali analoghe a quelle del secondo dopoguerra ci sono, tra cui la necessità di ricostruire un tessuto economico e sociale sull’orlo del collasso e la necessità di programmare e pianificare i tempi e le risorse del Recovery Fund per la ricostruzione stessa. Sono necessità queste che richiedono necessariamente uno sforzo collettivamente organizzato e diretto dallo stato. Negli anni della preparazione del piano Marshall e del boom economico, tuttavia, era presente anche un terzo fattore fondamentale per l’orientamento delle risorse disponibili: un forte e organizzato movimento operaio. Infatti, è proprio grazie alla pressione esercitata direttamente o indirettamente dal comunismo a livello locale e internazionale ad aver orientato le risorse economiche verso il conseguimento di obiettivi sociali come la riduzione delle disuguaglianze e la forte crescita dei salari reali. Oggi, tolte minuscole sacche di resistenza, tutto questo non esiste più. Perché, dunque, i nostri governi dovrebbero rimboccarsi le maniche ed affrontare problemi storici come la disuguaglianza e la miseria quando può avere accesso a strade più convenienti e meno fastidiose in mancanza di una forte opposizione di stampo comunista?

Non abbiamo ancora un piano definitivo su cui fare ragionamenti, né dati ed effetti a disposizione su cui riflettere. Tuttavia, da ciò che possiamo ad oggi osservare è che si va verso il sostegno prevalente dello sviluppo di tecnologie ad alta intensità di capitale (cosa che sul lungo periodo avrà effetti negativi sulla già ampia disoccupazione) e, per quanto riguarda gli interventi sul reddito delle famiglie, si osservano misure volte alla mera sussistenza o misure flat, e di fatto regressive, per incentivare il livello generale dei consumi, ma non quello di realizzare posti di lavoro stabili e con redditi dignitosi.

Le prospettive non sono rosee per i comunisti, anche per la piccola entità delle forze che si hanno a disposizione. Che almeno queste vengano indirizzate correttamente sfruttando ogni sforzo per raggiungere il doppio obiettivo di strappare quante più rivendicazioni possibili per i lavoratori al “capital recovery plan” e di allargare il consenso e l’organizzazione del movimento comunista in Italia così come all’estero.

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