PERCHE’ LA GUERRA FA MALE ALL’ECONOMIA (3/3)

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PERCHE’ LA GUERRA FA MALE ALL’ECONOMIA (3/3)

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PERCHE’ LA GUERRA FA MALE ALL’ECONOMIA (3/3)

di Alessandro Bartoloni

 

Nel secondo articolo [mentre il primo si trova qui] dedicato alla dimostrazione del perché la guerra fa male all’economia, abbiamo inquadrato le attività della pubblica amministrazione come improduttive di plusvalore. Questo consumo improduttivo di risorse, tuttavia, non significa che le merci materiali utilizzate non contengano plusvalore. Un computer della Microsoft non smette di essere una merce capitalistica solo perché è stato acquistato da un Comune o da un Ministero. E la stessa cosa potrebbe dirsi delle armi. A prima vista, potrebbero sembrare anch’esse frutto di lavoro produttivo che viene poi consumato improduttivamente dalla pubblica amministrazione, come succede per tutte le altre merci. Ma le cose non stanno così.

 

I. LA PRODUZIONE DESTINATA ALLA DIFESA

 

Se le cose stessero semplicemente così, la produzione capitalistica di armi, attrezzature e vettovaglie acquistate dalle forze armate e dagli apparati di polizia potrebbe sembrare di per sé produttiva e l’unico aspetto improduttivo sarebbe nel loro consumo, dal momento che l’acquirente è pubblico. C’è però una differenza fondamentale che rende questo tipo di produzione di per sé improduttiva, anche quando è effettuata da aziende capitalistiche che sfruttano la manodopera salariata per ottenerne un profitto.Nel caso delle opere pubbliche, le risorse umane e materiali vengono sì sottratte all’allargamento della produzione di plusvalore (quando ad essere colpito dalle imposte è il “reddito d’impresa”), ma vengono impiegate per creare beni destinati ad essere consumati nel processo produttivo. Lo stesso, mutatis mutandis, avviene con l’erogazione dei servizi pubblici, il cosiddetto salario indiretto. Le cure ospedaliere che i lavoratori ricevono rappresentano a tutti gli effetti mezzi di sussistenza senza i quali non potrebbero tornare a lavorare il giorno seguente. Pertanto, in entrambi i casi, il consumo improduttivo di risorse da parte dello Stato trasforma le merci acquistate in beni e servizi che vengono riutilizzati nel processo produttivo di plusvalore e nel processo riproduttivo della forza-lavoro.

Viceversa, la produzione per le forze armate civili e militari ha tutt’altro significato. Essa non compare in alcun modo come materiale nel successivo ciclo di produzione. Le armi acquistate dall’esercito, ad esempio, non entrano dentro alcun processo produttivo di plusvalore. Né il cibo dei soldati serve alla riproduzione della forza-lavoro, non essendo costoro impiegati in alcuna attività lavorativa. Dal punto di vista economico, la funzione della difesa non è quella di produrre valori d’uso destinati a essere consumati all’interno di un processo produttivo di plusvalore o riproduttivo di forza-lavoro; la sua funzione è quella di conservare qualcosa e qualcuno mediante la distruzione. L’effetto economico di questa produzione, dunque, è una grandezza puramente negativa.

Nei periodi che normalmente chiamiamo “pace”, la presenza delle forze armate civili e militari serve a persuadere i nemici dell’ordine costituito e chi vuole rivedere a proprio favore i rapporti di forza all’interno del sistema capitalistico che le relazioni sociali e internazionali non devono essere messe in discussione. L’obiettivo, dunque, è quello di proteggere e conservare le condizioni che rendono possibile la produzione di plusvalore. Come le strade devono essere mantenute in buone condizioni affinché le merci vi possano circolare in sicurezza e rapidamente, lo stesso accade per il diritto allo sfruttamento e per le leggi a tutela della concorrenza, della proprietà privata ecc. La differenza sta nel fatto che la costruzione o la manutenzione delle strade non è un’attività necessariamente improduttiva. Essa è improduttiva soltanto se viene svolta dallo Stato. Non appena le forze produttive sono sufficientemente sviluppate, anch’essa diventa un’attività organizzata capitalisticamente e si vede come tale costruzione non sia altro che produzione di capitale fisso. Al contrario, la protezione dei rapporti sociali mediante gli apparati polizieschi è un’attività necessariamente improduttiva che in nessun caso può produrre plusvalore ma semmai ne costituisce un presupposto. E, come vedremo più avanti, il fatto che queste attività possano essere organizzate capitalisticamente non ne muta il carattere improduttivo.

Inoltre, il mantenimento dei rapporti sociali tra le classi e tra gli Stati che rendono possibile la produzione di plusvalore e la sua accumulazione non ha più nulla di progressivo. In altre parole, il lavoro e le risorse così spese frenano l’ulteriore sviluppo delle forze produttive. O lo distruggono. Il lavoro di conservazione dei rapporti sociali interni e internazionali portato avanti dagli apparati repressivi degli Stati capitalistici implica necessariamente la produzione di un danno per qualcun altro. Un po’ come avviene nel normale processo produttivo dominato dal capitale.

«Nell’agricoltura come nella manifattura la trasformazione capitalistica del processo di produzione si presenta insieme come martirologio dei produttori, il mezzo di lavoro si presenta come mezzo di soggiogamento, mezzo di sfruttamento e mezzo di impoverimento dell’operaio, la combinazione sociale dei processi lavorativi si presenta come soffocamento organizzato della sua vivacità, libertà e autonomia individuali. Come nell’industria urbana, così nell’agricoltura moderna, l’aumento della forza produttiva e la maggiore quantità di lavoro resa liquida vengono pagate con la devastazione e l’ammortamento della stessa forza-lavoro. E ogni progresso dell’agricoltura capitalistica costituisce un progresso non solo nell’arte di rapinare l’operaio, ma anche nell’arte di rapinare il suolo; ogni progresso nell’accrescimento della sua fertilità per un dato periodo di tempo, costituisce insieme un progresso della rovina delle fonti durevoli di questa fertilità. La produzione capitalistica sviluppa quindi la tecnica e la combinazione del processo di produzione sociale solo minando al contempo le fonti da cui sgorga ogni ricchezza: la terra e l’operaio» (K. Marx, Il capitale, I, cap. 13).
Pertanto, è inevitabile che la conservazione dei rapporti sociali e dei loro rappresentanti porti alla distruzione di chi vuole sovvertirli o di chi aspira a rappresentarli meglio (i concorrenti). In altre parole, lo sviluppo capitalistico conduce inevitabilmente alla crisi e la “pace” lascia il posto alla guerra.
«In quanto non salti l’intero sistema, il modo di produzione capitalistico deve ridurre transitoriamente le forze produttive ed eliminare parzialmente i contrasti tra i singoli elementi del sistema economico; con ciò può ricominciare un ulteriore ciclo del loro sviluppo sotto il medesimo involucro. Questa distruzione delle forze produttive costituisce la conditio sine qua non dello sviluppo capitalistico; sotto questo punto di vista, le crisi rappresentano i costi di concorrenza e le guerre i faux frais (costi improduttivi) della riproduzione capitalistica» (N. Bukharin, Economia dell’epoca della trasformazione, cap. 3).

Ciò significa che la produzione destinata ad essere utilizzata dagli organi repressivi dello Stato è improduttiva e necessariamente distruttiva. Essa crea valori d’uso che, prima o poi, verranno inevitabilmente impiegati nel processo distruttivo del capitale costante (mezzi e oggetti di lavoro) e del capitale variabile (forza-lavoro), con ciò diminuendo la produzione di plusvalore. Pertanto, tali spese rappresentano un trasferimento di ricchezza doppiamente negativo. Da un lato, perché a parità di imposizione fiscale, sottrae risorse che pur essendo impiegate improduttivamente sono utili a sviluppare la forza produttiva del capitale e a mantenere la forza-lavoro (opere pubbliche e servizi sociali). Dall’altro, perché utilizza tali risorse per conservare un assetto sociale capitalistico che per sopravvivere conduce inevitabilmente alla periodica distruzione fisica di ricchezze materiali ed esseri umani.In sintesi, la guerra compie su una scala più grande quello che la crisi economica fa in scala più ridotta: fallimento dei concorrenti (nemici) e svalutazioni. Esiti che aprono nuove opportunità di mercato. Non solo per le vendite ma anche per gli investimenti, dal momento che la maggior distruzione del capitale costante rispetto al variabile e la compressione dei bisogni socialmente necessari dei lavoratori diminuiscono la composizione organica del capitale e il salario, con ciò innalzando, rispettivamente, il tasso di profitto e quello di sfruttamento.

 

II. L’UTILIZZO CAPITALISTICO DELLE ARMI

 

Questo ragionamento ci permette di inquadrare il ruolo della produzione di armi anche nel caso in cui l’acquirente sia un’azienda capitalistica. Si pensi, ad esempio, alle imprese di vigilanza privata che si occupano del trasporto di valori o della sicurezza di banche, poste, supermercati ecc. In questo caso non solo abbiamo una produzione di merci effettuata con modalità capitalistiche ma anche un loro consumo apparentemente produttivo, in quanto le armi acquistate rappresentano a tutti gli effetti mezzi di produzione. Guardando la cosa con più attenzione, però, si scopre che neanche questa attività è produttiva, in quanto serve a garantire la proprietà privata e la trasformazione della merce in denaro (cioè a evitare i furti).Se l’utilizzo del capitale è condizione necessaria a qualificare il lavoro impiegato come produttivo, tuttavia non è una condizione sufficiente.

«Le metamorfosi M – D e D – M sono operazioni commerciali che avvengono tra compratori e venditori. Tali mutamenti di stato costano tempo e forza-lavoro, ma non per creare valore, bensì per produrre la conversione del valore da una forma nell’altra. Questo lavoro non crea alcun valore, come non aumenta la grandezza di valore dell’oggetto conteso il lavoro che si svolge in un processo giudiziario. E le dimensioni che assume la conversione delle merci nelle mani dei capitalisti non possono naturalmente trasformare in creatore di valore questo lavoro che non crea alcun valore ma unicamente media un mutamento di forma del valore. Così pure il miracolo di questa transustanziazione non può avvenire per una trasposizione, cioè per il fatto che i capitalisti industriali, anziché compiere essi stessi questo lavoro, ne fanno l’affare esclusivo di terze persone da essi pagate. Subentra un’illusione in virtù della funzione del capitale commerciale. Ma qui, senza entrare più oltre nel merito, già dal principio è chiaro che: se mediante la divisione del lavoro una funzione che in sé e per sé è improduttiva ma è un momento necessario della riproduzione viene trasformata da un’occupazione accessoria di molti nell’occupazione esclusiva di pochi, nel loro affare particolare, non per questo si trasforma il carattere della funzione stessa» (K. Marx, Il capitale, II, cap. 6)

Supermercati, banche, assicurazioni, sono solo alcuni degli esempi di attività capitalistiche che non producono plusvalore ma che lo consumano. Lo stesso si può dire dell’impiego di lavoratori salariati che producono materiale pubblicitario (volantini, cartelloni, video, spettacoli dal vivo e chi più ne ha più ne metta). Tali lavoratori vengono sfruttati e producono merci che potrebbero anche contenere plusvalore, ma dal momento che servono unicamente a garantire la trasformazione della merce reclamizzata (M) in denaro (D), non appartengono alla sfera produttiva di plusvalore bensì alla sfera della sua circolazione. E il fatto che tali lavoratori siano spesso impiegati da agenzie pubblicitarie specializzate non cambia nulla alla questione.Lo stesso accade per le attività di sicurezza. I guardiani che stazionano davanti alle uscite dei supermercati servono a garantire la trasformazione della merce in denaro. Oppure semplicemente a proteggere la proprietà privata (come, ad esempio, quando vigilano le banche e le poste). In entrambi i casi, la loro funzione è improduttiva. Che diventa distruttiva laddove la legge accorda legittimità a quegli imprenditori disposti a far uccidere chi attenta alla proprietà privata.

Pertanto, l’unico caso in cui l’industria delle armi può considerarsi produttiva è quando le sue merci contengono plusvalore e vengono utilizzate per la caccia, la pesca e l’abbattimento degli animali da allevamento. In altre parole, quando il loro utilizzo (produttivo o improduttivo) è parte del processo produttivo di plusvalore o riproduttivo della forza-lavoro.

 

III. ESSERE PACIFICI NON SIGNIFICA ESSERE PACIFISTI

 

Come abbiamo accennato più sopra, dal punto di vista economico la guerra è una forma di manifestazione della crisi la quale, a sua volta, è un momento necessario del processo complessivo di riproduzione del capitale. In altri termini, nel capitalismo non c’è crescita che non porti prima o poi a una recessione. La quale prepara il terreno alla futura crescita.
«Qualsiasi crisi capitalistica comporta una temporanea distruzione delle forze produttive. In ultima istanza, la crisi estende i settori dell’ulteriore sviluppo del sistema capitalistico. Lo stesso avviene anche in caso di guerra. Con la guerra si ha a che fare con una “crisi”, anche se in dimensioni e forme mai viste, ma in nessun senso con un “crollo” del sistema capitalistico: dopo che si siano sanate le piaghe, riallacciati i rapporti e ricostruite le parti distrutte del capitale, il modo di produzione capitalistico riceverebbe la possibilità, ma a quale prezzo, di un ulteriore sicuro sviluppo» (N. Bukharin, Economia dell’epoca della trasformazione, cap. 3).
Questo vale senza dubbio per i paesi imperialisti e le loro guerre. Ma come non di sola economia si vive, così non di sola guerra imperialistica si muore.
«I socialisti hanno sempre condannato le guerre fra i popoli come cosa barbara e bestiale. Ma il nostro atteggiamento di fronte alla guerra è fondamentalmente diverso da quello dei pacifisti borghesi (fautori e predicatori della pace) e degli anarchici. Dai primi ci distinguiamo in quanto comprendiamo l’inevitabile legame delle guerre con la lotta delle classi all’interno di ogni paese, comprendiamo l’impossibilità di distruggere le guerre senza distruggere le classi ed edificare il socialismo, come pure in quanto riconosciamo pienamente la legittimità, il carattere progressivo e la necessità delle guerre civili, cioè delle guerre della classe oppressa contro quella che opprime, degli schiavi contro i padroni di schiavi, dei servi della gleba contro i proprietari fondiari, degli operai salariati contro la borghesia. E dai pacifisti e dagli anarchici noi marxisti ci distinguiamo in quanto riconosciamo la necessità dell’esame storico (dal punto di vista del materialismo dialettico di Marx) di ogni singola guerra. Nella storia sono più volte avvenute delle guerre che, nonostante tutti gli orrori, le brutalità, le miserie ed i tormenti inevitabilmente connessi con ogni guerra, sono state progressive; che, cioè, sono state utili all’evoluzione dell’umanità, contribuendo a distruggere istituzioni particolarmente nocive e reazionarie (per esempio l’autocrazia o la servitù della gleba), i più barbari dispotismi dell’Europa (quello turco e quello russo). Perciò bisogna prendere in esame le particolarità storiche proprie di ogni guerra» (Lenin, Il socialismo e la guerra, cap. 1).
Per questo motivo, per quanto la guerra e la relativa produzione siano distruttive, non possono essere fermate sempre e comunque, come vorrebbero i veri pacifisti. Ma devono esserlo caso per caso, a seconda di chi imbraccia il fucile e perché.

 

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1 Comment

  1. Fulvio Bandini ha detto:

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