di Simone Bruni
Nuovi venti di guerra agitano il Medioriente e stavolta gli USA puntano direttamente al bersaglio grosso, l’Iran.
Dopo mesi di tensioni con l’inasprimento delle sanzioni economiche che colpiscono in particolare le esportazioni di petrolio, il ritiro dall’accordo sul nucleare (Joint Comprehensive Plan of Action – JCPoA 2015) e l’inserimento delle forze armate iraniane – Corpo delle guardie rivoluzionarie iraniane (IRGC) – nella lista dei “gruppi terroristi globali”, abbiamo assistito ad una prima escalation il 13 giugno con l’attacco nello stretto di Hormuz a due petroliere (la “Kokuka Courageous” di proprietà giapponese e la “Front Altair” di proprietà norvegese) dirette in Giappone, proprio mentre il premier giapponese Abe si trovava in visita a Teheran per stringere possibili accordi economici e commerciali.
Lo stretto di Hormuz rappresenta uno snodo strategico, separando la Penisola arabica dalle coste dell’Iran e mettendo in comunicazione il Golfo di Oman a sud-est con il Golfo Persico ad ovest, dal quale transita un quinto della produzione di petrolio mondiale. Questo rende chiaro quale sia la portata degli interessi che sono in gioco. La tensione tra Iran e USA è alta già da tempo: nel mese di maggio il Consigliere per la Sicurezza Nazionale degli USA, John Bolton, aveva già minacciato l’Iran a seguito delle dichiarazioni di funzionari iraniani sulla possibile chiusura di questo snodo logistico strategico – in reazione alle sanzioni – che colpirebbe “gli interessi americani e dei suoi alleati”.
La mappa dell’incidente del 13 giugno
Subito si è parlato di un attacco con siluri, ipotesi alquanto improbabile dato che la potenza scatenata da un siluro sottomarino è tale da squassare totalmente una petroliera, anche se di grandi dimensioni. Gli Stati Uniti accusano direttamente dell’attacco il governo iraniano e viene diffuso un video in cui presunti pasdaran piazzano delle mine sul fianco delle navi. A seguito dell’incidente Trump non esclude una risposta militare.
Le informazioni diffuse rendono abbastanza evidente che si tratti in realtà di una “false flag” (in gergo militare un incidente causato da qualcuno per incolpare qualcun altro) con il probabile coinvolgimento dei servizi israeliani, vero nemico numero uno dell’Iran, con gli USA che colgono subito la palla al balzo per annunciare possibili ritorsioni militari, subito spalleggiati da Arabia Saudita e Regno Unito. Viene così annunciato l’invio di ulteriori 1.000 soldati in Medio Oriente che andranno ad aggiungersi al dispiegamento iniziato dal mese scorso, in seguito all’attacco a quattro petroliere al largo degli Emirati Arabi Uniti, quando Washington ha inviato una batteria di missili Patriot, bombardieri a capacità nucleare e un gruppo di attacco di una portaerei, con 1.500 soldati. Gli Stati Uniti hanno già circa 70.000 soldati in tutto il Medio Oriente, sotto vari comandi.
Passati alcuni giorni di sostanziale calma apparente, nella giornata del 20 giugno viene abbattuto un drone militare spia americano (US Global Hawk Surveillance), secondo Teheran all’interno del suo spazio aereo. Ciò ha portato la tensione a livelli altissimi, con Trump che promette immediatamente una rappresaglia e Putin che si affretta a difendere l’Iran. In serata i toni del presidente americano si ammorbidiscono (“non voglio la guerra”), probabilmente sorpreso dal mancato appoggio immediato di alleati fidatissimi come Londra e Riad, ma in nottata avrebbe ordinato un raid aereo contro postazioni radar iraniane, stoppato all’ultimo minuto dall’ennesimo ripensamento del presidente americano, secondo quanto riportato dapprima dal NYT e poi dallo stesso Trump con un tweet. Diverse fonti riportano di divisioni all’interno della Casa Bianca dove il segretario di stato Mike Pompeo, il consigliere alla sicurezza nazionale John Bolton e il direttore della Cia Gian Haspel erano a favore di un attacco mentre i funzionari del Pentagono contrari.
Mappa della zona di abbattimento del drone americano
Mentre scriviamo non sappiamo quali saranno gli sviluppi di questa vicenda, se ci sarà una guerra aperta dalle conseguenze imprevedibili o se la rappresaglia americana si concentrerà su obiettivi iraniani in Siria, paese dove ormai viene scaricata militarmente qualsiasi tensione tra le superpotenze che si contendono il Medioriente. Siamo ancora nella fase delle pericolose provocazioni e minacce, ma quello che è certo è che si sta accumulando materiale altamente infiammabile che può realmente portare ad una nuova e disastrosa guerra nella regione con un ampio coinvolgimento di potenze globali e regionali.
Potremmo assistere nell’immediato anche ad un ulteriore inasprimento delle sanzioni economiche contro l’Iran, sanzioni dalle quali l’Italia era stata inizialmente esclusa e dove poi è stata invece inserita, a dispetto delle promesse fatte a Conte da Trump durante la visita in USA del Presidente del Consiglio.
A proposito del nostro paese, i nostri leader politici continuano a fare viaggi in USA per farsi dettare la linea in cambio di piccole promesse che poi l’”alleato” non mantiene. Alla luce dei fatti di queste ultime ore reclamiamo con maggiore urgenza la questione dell’uscita dalla NATO, che non perde occasione per mostrare il suo volto aggressivo ed imperialista, mettendo in pericolo intere aree geografiche del mondo e andando contro gli interessi dei popoli che vogliono convivere pacificamente.
Di fronte a questi pericolosi piani di guerra, è fondamentale esser pronti per opporsi a qualsiasi partecipazione o coinvolgimento del nostro paese che non deve più essere il punto di partenza di nuove guerre imperialiste.