Un no comunista alla riforma costituzionale

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Un no comunista alla riforma costituzionale

di Alessandro Mustillo

Il 4 dicembre il popolo italiano sarà chiamato a votare per confermare o respingere la riforma costituzionale promossa dal governo Renzi, che vede tutte le forze di opposizione contrarie, e un sostegno che va ad erodersi anche negli ambienti della sinistra del PD. Ma proprio questa “renzizzazione” dell’esito del referendum rischia di portare a non comprendere fino in fondo la posta in gioco e la reale funzione della modifica costituzionale. Nello schieramento eterogeneo delle forze politiche che compongono il fronte del no sono presenti infatti molti dei responsabili delle precedenti riforme costituzionali e delle riforme strutturali avanzate nell’ottica del perseguimento degli interessi del grande capitale. Penso ai vari D’Alema, e a tutte le posizioni del centrodestra. O tutt’al più l’esito del referendum attiene a giochi di potere per la sostituzione di Renzi, evidentemente con qualcuno che farebbe altrettanto al governo, come la storia recente ci ha insegnato. Per queste ragioni il Partito Comunista ha deciso di costituire un proprio comitato referendario, appoggiato da quegli esponenti intellettuali e dai settori del lavoro che comprendono la necessità di un no alla riforma istituzionale non limitato alle contingenze, ma legato alle esigenze strutturali di un rafforzamento delle lotte nel nostro paese.

La riforma costituzionale varata dal governo è una riforma funzionale agli interessi del grande capitale, appoggiata non a caso dalla Confindustria, dall’Unione Europea, dai media internazionali e dai settori che contano degli apparati imperialistici, ivi compreso il sostegno esplicito dell’ambasciatore americano in Italia. Si inserisce nel contesto – esplicitamente dichiarato dalla grande finanza – della necessità strutturale del superamento delle costituzioni anti-fasciste in quanto eccessivamente sbilanciate in ottica di compromesso con le forze sociali, ed espressione di rapporti di forza in cui la classe operaia e le masse popolari, e con loro i partiti che ne rappresentavano gli interessi, erano enormemente più avanzati di oggi.

In questi anni a sinistra la Costituzione è stata oggetto di venerazione, in ottica antiberlusconiana e legalitaria, dimenticandone la natura di compromesso sociale e politico. Discorsi come quelli relativi alla “Costituzione più bella del mondo” e simili, hanno dimenticato che ogni costituzione si regge esclusivamente sui rapporti di forza reali, e che anche un testo avanzato come quello della costituzione italiana, ha consentito le politiche di attacco ai diritti dei lavoratori, l’ingresso nella UE, la partecipazione a guerre imperialiste, e non è ma stata attuata fino in fondo nelle sue parti più progressiste. Gli stessi che oggi la difendono strumentalmente contro l’attacco di Renzi sono i responsabili delle modifiche peggiorative introdotte in questi anni: dalla modifica del titolo V al pareggio di bilancio. Noi comunisti non possiamo associarci a questo coro, né ritenere che la Costituzione sia l’orizzonte ultimo della nostra azione politica, o come professato dall’ultimo PCI e dalle forze opportuniste, l’orizzonte entro il quale praticare il socialismo. La difesa che noi comunisti facciamo della Costituzione attiene strettamente alla lettura del quadro dei rapporti di forza, che sono molto più arretrati di quando essa venne redatta. Ogni modifica della Costituzione in queste condizioni non potrebbe che risolversi in una riforma peggiorativa per le prerogative delle classi popolari, e i precedenti storici lo hanno largamente dimostrato. Quando, attraverso il lavoro di sviluppo delle lotte e della coscienza di classe si produrranno rapporti di fora più avanzati la Costituzione non sarà certo un tabù irremovibile, e il nostro orizzonte si muoverà ben oltre quella che Calamandrei definì giustamente “una rivoluzione promessa”.

I lavoratori hanno diritto di comprendere perché questa riforma è contro di loro e perché tanti ragionamenti che ne costituiscono la maschera populista sono funzionali a ben altri fini. Analizziamo parte per parte. La riforma supera il bicameralismo, aumenta le prerogative dell’esecutivo, riduce i tempi per l’approvazione delle leggi, creando canali particolari per alcune di esse. La tesi maggioritaria in sostegno della riforma è che questi provvedimenti sono tesi a rendere più veloce l’approvazione delle leggi e rimuovere le difficoltà all’approvazione delle riforme, rendendo la forma di governo del Paese più moderna. E’ verissimo, ma bisogna collegarlo al contesto della fase, comprendendo il senso della politica del governo, e rigettando tecnicismi e pretese di neutralità dell’azione legislativa. Potenziare e migliorare il funzionamento della macchina dello Stato ha precisi scopi. 

Le leggi e le riforme a cui il governo fa riferimento altro non sono che le politiche antipopolari di riduzione dei diritti dei lavoratori dei pensionati, dei giovani il cui iter di approvazione è oggi troppo lento, aprendo, attraverso una doppia (spesso tripla) lettura necessaria delle Camere a compromessi, qualche residua battaglia parlamentare, una maggiore possibilità per le forze sociali, per i sindacati e i movimenti di lotta di inserirsi nel dibattito durante la discussione nei vari rami del Parlamento, finendo sempre per dover dare qualche residua concessione. Anche le briciole finiscono per pesare in una fase recessiva come quella che vive l’economia italiana. E così si rafforzano le prerogative degli esecutivi a danno di farraginosi e litigiosi Parlamenti, che se ormai sempre più lontani dal contatto diretto con le forze sociali, non rappresentativi di reali interessi di classe, per interessi particolari finiscono pur sempre per essere un impaccio ai piani del grande capitale. La politica degli interessi personali, dei carrierismi e del trasformismo si è rivelata utile nel processo di disarticolazione delle forze di classe, alla riduzione del conflitto sociale in Italia, e oggi quelle stesse forze divenute inutili e d’impaccio, additate di essere l’origine di tutti i mali, vengono liquidate senza grandi complimenti. La dialettica parlamentare espressione della composizione del conflitto di classe nel dopoguerra non ha più senso di esistere perché il capitale non c’è alcun compromesso da attuare. Sbagliata era la strategia di quelli che dall’ottica opposta lo praticarono in altre condizioni e con altri rapporti. La “normalizzazione parlamentare” si compie anche con la costituzionalizzazione degli statuti delle opposizioni, pegno pagato alla tradizione liberale di matrice anglosassone che non a caso è nota anche nel linguaggio corrente per la “opposizione di Sua Maestà” proverbiale esempio di opposizione inutile e pienamente inserita in un’ottica di alternanza politica e piena internità nel sistema.

Questo processo di evoluzione e perfezionamento della macchina dello Stato, come lo avrebbe definito Marx, si somma agli esiti della riforma elettorale, che assegna ad una minoranza la maggioranza dei seggi nell’unica Camera restante con piene funzioni legislative. Anche questo particolare risponde alle esigenze strutturali delle classi dominanti, che temono l’ingovernabilità che emergerebbe da uno scenario che non prevedesse tali meccanismi di fronte ad una parcellizzazione delle forze politiche e all’esplosione del precedente assetto bipolare, come sta accadendo in tutta Europa. Una legge che vanta precedenti non edificanti, dalla legge Acerbo che aprì la strada al regime fascista, alla legge truffa fermata per l’opposizione di comunisti e socialisti (i famosi rapporti di forza).

Riassumendo un esecutivo espressione di una minoranza, controllerà la maggioranza assoluta della Camera, unico ramo legislativo del Parlamento, e potrà oltre ai consueti strumenti della fiducia e della decretazione governativa, chiedere di approvare provvedimenti con iter accelerato, addirittura di discussione entro cinque giorni dalla presentazione. Sarà agevole per il governo ottenere l’approvazione in tempi rapidissimi dei provvedimenti da parte di una camera controllata, così come respingere le eventuali richieste del Senato di revisione della legge, che non hanno parere vincolante, e possono essere superate con un voto confermativo anch’esso in tempi brevi. Lo scenario ideale per la classi dominanti, e ulteriori difficoltà – anche se compensate da una buona dose di perdita di illusioni – per organizzare e rafforzare il conflitto sociale.

I margini della partecipazione popolare diretta, già resi inutili dal peso della minoranza governativa, agevolando di fatto astensionismo e allontanamento generale, vengono ridotti anche per leggi di iniziativa popolare e referendum. Le firme richieste per la presentazione di una legge di iniziativa popolare passano dalle 50.000 precedenti a 150.000 e quelle per indire un referendum si sdoppiano: restano 500.000 per il quorum attuale, diventano impossibili 800.000 (i limiti temporali restano i medesimi) per il quorum più basso. In questo caso si ridurrebbe il quorum dal 50% degli aventi diritto al 50% dei votanti alle ultime elezioni, ma in presenza di una soglia di firme così elevata è un abbaglio, che testimonia ulteriormente la direzione della riduzione del peso della partecipazione popolare ormai dato per scontato e anzi da agevolare. A usufruirne paradossalmente saranno quelle forze dominanti che uniche potranno riuscire a raccogliere una soglia così grande di firme, per le quali non sarà poi necessario il quorum, mentre per i comitati popolari la strada è in salita. Anche l’istituto del referendum viene messo nelle mani delle forze politiche più forti mediaticamente e per apparati, quindi quelle di governo. Si vuole così evitare quei fastidiosi episodi come il referendum sull’acqua pubblica, che hanno chiaramente messo in luce come la volontà popolare non conti nulla, avendo governi e amministrazioni locali proceduto a superare quell’esito con provvedimenti legislativi opposti.

Si parla di riduzione dei costi della politica, in relazione al Senato che vedrà il numero di senatori diminuire a 100 la maggioranza dei quali indicati dalle istituzioni locali tra consiglieri, sindaci e amministratori. La riduzione dei costi in parte ci sarà, ma a condizione di un vero pasticcio che renderà il Senato del tutto inutile (non sarebbe stato meglio abolirlo?) se non a pagare il pegno degli ambienti federalisti e del discorso della rappresentanza regionale. La confusione dei ruoli di amministratori locali e senatori non depone a favore del funzionamento dell’organo che d’altronde è strutturalmente ideato per funzionare il meno possibile e non mettere bastoni tra le ruote al governo e alla camera che legifera.

Occasione persa infine per una seria riforma del titolo V della Costituzione che tanti danni ha prodotto al sistema sociale nazionale. La riforma del governo non è assolutamente il passo indietro che sarebbe stato necessario ma una semplice razionalizzazione – dagli esiti giuridici non certi – che pone a avocare allo Stato una serie di funzioni che sono determinanti oggi per ragioni di sviluppo e interessi capitalistici, vedasi a tal proposito l’attenzione sulle opere strategiche. In sostanza si rimuove il controllo locale lì dove può essere di ostacolo, ma ci si guarda bene dal ripristinare l’unitarietà del sistema sanitario nazionale, del diritto allo studio e di tutti quei settori in cui il passaggio alle regioni è stato un regalo alle privatizzazioni e ha comportato una riduzione sensibile dei diritti per le classi popolari.

Queste sono le ragioni per cui i comunisti invitano a votare No al referendum costituzionale. Sapendo fin da ora che prima o dopo questa riforma quale sia l’esito per le classi popolari non cambia di certo la necessità strategica della propria organizzazione e dell’aumento della lotta di classe come unico mezzo per la propria liberazione. Non limitiamo il nostro orizzonte a dispute di carattere borghese, respingiamo questa riforma perché peggiorativa, ma non alimentiamo alcuna illusione sul carattere di questo sistema, che ha già dimostrato la sua vera natura. In caso di vittoria del No le classi dominanti cercheranno altri mezzi per ottenere i loro fini: a Renzi si sostituirà un nuovo governo, si parlerà di riforme tecniche, o si appoggeranno altre forze politiche, ma la sostanza resterà la stessa. Quale sarà l’esito bisognerà continuare a lottare.

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